Uno dei periodi della vita di Dante Alighieri che desideravo maggiormente approfondire era quello della sua giovinezza. In effetti sono davvero pochi i riferimenti all’infanzia e alla famiglia del poeta, della quale abbiamo solo poche e frammentarie notizie (spesso riprese da documenti riguardanti fatti e personaggi indirettamente collegati). La mia ricerca, però, mi ha portato sulle tracce di una figura semi sconosciuta ed estremamente affascinante: Tana Alighieri, la sorella di Dante.
Immagino che adesso vi starete chiedendo: “Ma davvero Dante aveva una sorella?“ Beh, a dire il vero più di una, solo che rintracciare le loro esistenze è un lavoro piuttosto complicato. Le fonti, come vi dicevo, sono scarse, incomplete e talvolta perfino contraddittorie, per cui certe informazioni sono state dedotte direttamente dai versi del Sommo – peraltro con interpretazioni diverse da parte degli studiosi – portandomi a credere che in questa ricerca non ci possa affidare solamente alle evidenze storiche. Ecco perché, tra gli studi e le letture degli ultimi mesi, ho accolto pienamente le teorie e le suggestioni letterarie del Prof. Marco Santagata, che attribuiva a questa donna un ruolo tutt’altro che marginale nella vita di Dante1.
Per me è stata un’assoluta scoperta, che ho fatto in qualche modo mia scegliendo di interpretare Tana nel nascente progetto dei tour danteschi in Toscana (in collaborazione con il collega e amico Riccardo Starnotti) e che vorrei rendere tanto più attuale attraverso le pagine del mio blog. Nei prossimi articoli sarà lei stessa a raccontarvi i costumi e le curiosità di Firenze al tempo di Dante, ma trattandosi di un personaggio poco noto occorrerà innanzitutto che ne faccia una breve presentazione.
Il suo nome era Tana, anche se in casa tutti la chiamavano Trotta.
Da bambini, lei e suo fratello Dante abitavano in delle case nel Sesto di Porta San Piero, nel popolo di San Martino al Vescovo, dove rimase fino al giorno del suo matrimonio.
Chi erano i genitori di Tana e Dante? Di certo sappiamo solo che la madre di Dante si chiamava Bella (Gabriella) degli Abati – molto probabilmente figlia del giudice Durante degli Abati2 – morta intorno al 1273 (quando lui aveva 8 anni) e che suo padre era Alighiero II, figlio del “prestatore” Bellincione Alighieri, un piccolo uomo d’affari con la cattiva fama di usuraio. Poco tempo dopo la morte di Bella, Alighiero si risposò con Lapa di Chiarissimo Cialuffi, da cui ebbe un secondo figlio maschio di nome Francesco (non si conoscono con esattezza né la sua data di nascita e neppure quella del matrimonio tra Lapa e Alighiero3) e risulta già morto nel 1283.
Fin qua tutto abbastanza chiaro (a parte la mancanza di riferimenti temporali), ma quando si inizia a parlare delle sorelle di Dante la questione si fa più complessa: della prima non conosciamo neppure il nome, ma solo che si sposò con un banditore del comune chiamato Leone Poggi4, mentre la seconda era appunto la nostra Tana (diminutivo di Gaetana).
La prima cosa che sarebbe utile capire è di chi fosse la figlia: era nata dal matrimonio di Alighiero con Bella oppure da quello con Lapa5? Va detto che la maggioranza dei dantisti propende per Lapa, come risulta sia dalla consultazione delle schede su Danteonline (il sito a cura del Comitato Scientifico della Società Dantesca Italiana) o dalla voce sulla famiglia Alighieri nell’Enciclopedia Dantesca Treccani, anche se la tesi “ufficiale” è stata più volte messa in discussione. Non è questa la sede adatta per riportare tutti gli studi e le considerazioni specifiche sull’argomento (la bibliografia di riferimento peraltro vi fornisce degli spunti utili) e mi limito ad accogliere e condividere certe impressioni che ritengo molto interessanti.
Suo marito si chiamava Lapo Riccomanni e di mestiere faceva il mercante. Non apparteneva ad una famiglia ricchissima, ma comunque più agiata degli Alighieri e il padre le mise da parte una dote sostanziosa per farla sposare.
Così Tana dovette lasciare quella casa e Dante ancora ragazzino, ma continuò a stargli vicino e prendersi cura di lui come poteva.
Difficile non lasciarsi affascinare dalla visione di Tana come la “sorella maggiore”, praticamente una seconda mamma per Dante, che nel giro di pochi anni aveva perso entrambi i genitori6 e si trovava quindi a dover vivere con la matrigna; immaginiamo il fratello Francesco molto piccolo, la sorella più grande (se è davvero mai esistita) forse già sposata con il Poggi e quindi un bambino che all’epoca poteva avere 10/11 anni a chi si sarebbe maggiormente legato?
Bisogna inoltre tenere conto dell’importanza che il matrimonio di Tana ebbe per gli Alighieri, che si imparentavano con una famiglia rispettabile ed economicamente molto solida e da cui Dante ricevette aiuto e sostegno negli anni dell’esilio. Anche in questo caso non è possibile datare con certezza l’evento, ma se Tana era figlia di Bella, è possibile che nel 1275 si fosse già sposata7.
Di certo non fu sempre facile. Dante era un giovane taciturno, uno di quelli che parlavano poco e studiavano tanto. Degliaffaridifamiglia non si curava, perché sentiva di essere destinato a fare qualcosa di più nobile e solenne.
Iniziò a scrivere versi per la sua amata Bice, la bella fanciulla che aveva incontrato da bambina e gli aveva rapito il cuore e l’anima. Anche lei come Tana si era sposata molto giovane ed era morta pochi annidopo.
Per mesi fu inconsolabile,finchédecise di raccogliere tutti i sonetti che le aveva dedicato in un libro: lo avrebbechiamato la Vita Nova.
Ammetto che tra i vari poemi danteschi ho sempre avuto una particolare predilezione per la Vita Nuova, l’opera in cui le liriche amorose – scritte in diversi periodi della vita del poeta – sono unite ai commenti in prosa che rievocano il suo intenso amore per Beatrice (dal loro primo incontro fino alla sua morte avvenuta nel 12908). Appartengono a questo componimento alcuni suoi celebri sonetti e canzoni, come A ciascun’alma presa e gentil core (VN III 10-12) Donne ch’avete intelletto d’amore (VN XIX ) e Tanto gentile e onesta pare, (VN XXVI 5-7) in cui Dante prima descrive il suo innamoramento secondo i canoni del “dolce stilnovo” e poi lo sublima trasformando la sua donna in una creatura salvifica e piena di luce.
Ed è proprio in uno dei capitoli della Vita Nuova che il Sommo rammentala sorella Tana. Prima della canzone Donna pietosa e di novella etate (VN XXIII), infatti, Dante racconta di quella volta in cui era rimasto a letto malato per giorni, colto da “una dolorosa infermitade, onde io continuamente soffersi per nove dì amarissima pena9“. Forse a causa della febbre alta egli aveva avuto un incubo (in cui aveva visto la morte di Beatrice) e iniziato a delirare, facendo spaventare la “donna giovane e gentile, la quale era lungo lo mio letto“, che mettendosi a piangere aveva attirato l’attenzione di altre donne presenti nella camera. La giovane, “la quale era meco di propinquissima sanguinitade congiunta“, era stata allontanata10 e le altre donne a scuotere Dante per farlo svegliare (“elle si trassero verso me per isvegliarmi, credendo che io sognasse, e diceanmi <<Non dormire più>> e <<Non ti sconfortare>>”).
“Era meco di propinquissima sanguinitade congiunta” vuole dire “che aveva con me unostretto legame di sangue” (cioè di parentela) e potrebbe verosimilmente riferirsi ad una sorella. Questa figura compare anche nei primi versi della canzone ed è tutto ciò che abbiamo su Tana scritto direttamente dal poeta.
Donna pietosa e di novella etate,
adorna assai di gentilezze umane,
che era là ‘v’io chiamava spesso Morte,
veggendo li occhi miei pien di pietate,
e ascoltando le parole vane,
si mosse con paura a pianger forte.
Poi venne la politica, l’altra grande passione di Dante dopo Beatrice e la poesia. O forse sarebbe meglio dire la disgrazia di famiglia.
Chissà quante volte Tana mise in guardia suo fratello, ormai deciso a seguire la strada del suo maestro Brunetto Latini e del suo grande amico, Guido Cavalcanti. Era facile vivere di politica e poesia con le loro rendite, ma gli Alighieri non avevano le spalle così coperte e non erano nemmeno mai stati tanto dentro agli affari del Comune.
Ma Dante le diceva: “Stai tranquilla sorella, non può accadermi niente. In fondo ho sposato una Donati”.
Dante purtroppo si sbagliava, perché il principale responsabile della sua condanna all’esilio fu esattamente Corso Donati, cugino della moglie Gemma, che mise fine alla sua rapida e brillante carriera politica, iniziata pochi anni prima nelle fila dei Guelfi Bianchi, quando si era unito al seguito di Vieri dei Cerchi. Corso invece era il cavaliere a capo dei Guelfi Neri, che aveva radunato intorno a sé un gruppo di magnati inflessibili e spesso responsabili di violenze contro gli avversari politici, portando la città sull’orlo della guerra civile. Dante era diventato priore nell’estate del 1300 mentre Corso era stato allontanato da Firenze, ma poteva contare su alleati molto potenti, come papa Bonifacio VIII e il conte Carlo di Valois, che appoggiarono il ritorno dei Neri nel novembre del 1301. Dante era già partito per recarsi a Roma dal papa e fu condannato insieme a tutti i Bianchi che nel frattempo venivano cacciati, arrestati o uccisi.
Tana rimase sempre fedele al suo sfortunato fratello e lo aiutò anche nei difficili anni dell’esilio. Suo marito Lapo morì nel 1315 e di lei abbiamo notizie sicure fino al 1320, quando il fratello Francesco le fece da tutore per la compravendita di un terreno11. Dal loro matrimonio nacquero due figli: Galizia e Bernardo, che divenne frate francescano e visse a lungo nel convento di Santa Croce.
Note:
L’importanza del ruolo di Tana era stata chiaramente espressa nelle ultime pubblicazioni del professore (scomparso nel 2020) che ho indicato in bibliografia e alle quali faccio ampiamente riferimento in questo articolo.
Non essendoci nessuno con questo nome nella discendenza degli Alighieri è probabile che il bambino sia stato chiamato così in onore del nonno, che mantenne sempre stretti rapporti con Dante e i suoi fratelli, facendogli da garante per un prestito da loro contratto nel 1297.
Non sapendo la data di morte di Bella non possiamo dire con esattezza quando Alighiero si sia risposato, ma in genere viene indicato il periodo tra il 1275 e il 1278, anche se in quegli anni Alighiero avrebbe potuto essere già morto.
L’unico afarne menzione in realtà è Giovanni Boccaccio nelle sue “Esposizioni sopra la Comedia di Dante” in cui racconta di averne conosciuto il figlio, un tale Andrea, che pur essendo definito “uomo idioto” era persona di buoni costumi e peraltro fisicamente molto somigliante allo zio.
Il matrimonio tra Bella e Alighiero dovrebbe essere avvenuto nel 1260 e quindi la nascita di Tana andrebbe collocata tra il 1260 e il 1261; se invece fosse figlia di Lapa, potrebbe essere nata intorno al 1275.
Neppure sulla data di morte di Alighiero abbiamo certezza. Esiste un documento di vendita del 1283 (Dante allora aveva 18 anni) in cui egli agisce da solo per cui si pensa che il padre fosse morto, ma ci sono altri indizi che porterebbero ad anticipare di molti anni la sua scomparsa.
Secondo il celebre studioso Renato Piattoli, il versamento della dote di Tana avvenne nel 1275 tramite un tutore che rappresentava i fratelli Dante e Francesco (quindi Alighiero doveva essere già morto) e ammontava alla consistente cifra di 366 fiorini d’oro. Il documento era già stato visto nel 1614 dall’erudito Francesco Segaloni, che però non ne aveva annotato la data. Il nomignolo Trotta, invece, compare più volte nei libri dei conti del marito tra il 1285 e il 1288.
La tomba di Beatrice si trova nella piccola chiesa di Santa Margherita dei Cerchi, a pochi passi dalla Casa di Dante e da Palazzo Portinari-Salviati, l’elegante edificio che si affaccia su Via del Corso fatto costruire nel Cinquecento da Jacopo Salviati (genero di Lorenzo il Magnifico) sulle case dei Portinari, in cui abitarono Beatrice e il padre Folco.
Da notare, anche in questo caso, la presenza del numero nove che sempre compare in relazione a Beatrice in quanto simbolo del miracolo.
Marco Santagata nel suo libro “Le donne di Dante” la definisce una “donna misteriosa, un fantasma che passa velocemente senza lasciare traccia. Allontanata dalle altre donne, non ricomparirà più” (pag. 22)
Nel contratto Tana e Francesco vengono detti fratelli “ex eodem patre nati” cioè nati dallo stesso padre e questo riporta al dubbio iniziale che la donna sia figlia di Bella degli Abati piuttosto che di Lapa Cialuffi.
Ordine, ritmo, semplicità: tre parole che racchiudono l’essenza di un artista, usate dal mio professore di storia dell’arte delle superiori per spiegarci l’architettura del Brunelleschi. A distanza di tanti anni me le ricordo ancora e spesso le rammento durante le mie visite guidate. Il nome del maestro che inventò il Rinascimento a Firenze resta indissolubilmente legato alla straordinaria impresa della cupola del duomo, ma in realtà egli progettò diversi altri edifici in città: ecco quali sono i principali luoghi da vedere.
Lo Spedale degli Innocenti (1419-1427)
Il portico dello Spedale degli Innocenti
Quella di Brunelleschi è un’arte “ragionata” e tutte le sue opere hanno un denominatore comune: si tratta di strutture modulari, organizzate secondo uno schema fisso che si ripete in successione e in cui ogni parte è strettamente legata all’altra da precisi rapporti di proporzione.
Una visione razionale dello spazio apparsa fin dal suo primo progetto, lo Spedale degli Innocenti, commissionato dalla potente Arte della Seta e destinato al ricovero dei bambini orfani e abbandonati; l’architetto iniziò i lavori nel 1419 mentre era ancora in attesa dell’assegnazione dell’incarico per la cupola e rimase a capo del cantiere fino al 1427, quando si impegnò in modo esclusivo con l’Opera del Duomo. Sotto la sua direzione vennero costruiti il portico, il cortile d’ingresso (il Chiostro degli Uomini) e i due edifici rettangolari paralleli ad esso (la chiesa e l’abituro dei fanciulli), poi i lavori vennero affidati a Francesco della Luna, che apportò diverse modifiche al prospetto originario. Brunelleschi aveva elaborato un complesso semplice e funzionale, che si rifaceva direttamente ai modelli dell’architettura classica da lui studiati a lungo e dava inizio ad un profondo rinnovamento dell’architettura fiorentina: rigore geometrico e purezza formale divennero le caratteristiche fondamentali del suo linguaggio, già molto evidenti nel portico della facciata, lungo ben 71 metri e retto da 9 campate con archi a tutto sesto 1.
Il Chiostro degli Uomini
La struttura mostra anche gli altri elementi tipici del suo stile: uno degli aspetti più innovativi era dato dall’originale accostamento dei colori e dei materiali, con l’alternanza del bianco dell’intonaco e del grigio della pietra serena, impiegata per le cornici e le strutture portanti dell’edificio 2, insieme all’uso del pulvino, una sorta di dado posto tra il capitello e l’imposta dell’arco, ripreso dalla tradizione bizantina. Altro motivo decorativo ricorrente era quello degli “occhi” nei peducci, lasciati inizialmente vuoti e poi decorati nel 1487 con le famose terrecotte di Andrea della Robbia raffiguranti dei piccoli in fasce. Il piano superiore, che nel progetto di Brunelleschi non era previsto 3, venne in effetti realizzato da Francesco della Luna dopo il 1435 per coprire la visuale sui corpi di fabbrica ai lati del cortile centrale: egli mantenne la stessa successione modulare del portico, ma prendendo come elemento di base una finestra rettangolare con timpano simile a quelle del Battistero.
La “ruota degli Innocenti” era il triste simbolo dello Spedale perchè era qui che le mamme lasciavano i bambini (è stata attiva fino al 1875)
Lo Spedale fu inaugurato nel 1445 e la prima bambina ad essere accolta venne chiamata Agata Smeralda. L’istituto continua ad operare ancora oggi in favore dei bambini e delle famiglie, con diversi servizi e attività: è inoltre sede del Museo degli Innocenti, in cui è possibile ripercorrere le vicende storiche, visitare i chiostri e la bella pinacoteca, con le opere d’arte commissionate per l’orfanotrofio e la sua chiesa nel corso dei secoli.
La Basilica di San Lorenzo (dal 1421)
L’interno della basilica di San Lorenzo
Agli inizi del Quattrocento, l’antica basilica di San Lorenzo, consacrata nel 393 da Sant’Ambrogio e ristrutturata nel XI secolo, era ancora un edificio dalle tipiche forme in stile romanico. Nel 1418 il priore Matteo Dolfini, ottenne dalla Signoria il permesso di abbattere delle vecchie case addossate alla chiesa ed elaborò un progetto per ampliare l’area del transetto. I lavori iniziarono nel 1421 e tra i suoi maggiori finanziatori vi fu Giovanni di Bicci de’Medici, che aveva già commissionato a Brunelleschi il progetto per la costruzione della Sagrestia Vecchia e della cappella dei Santi Cosma e Damiano: è dunque molto probabile che alla morte di Dolfini, avvenuta alla fine del 1421, egli abbia affidato all’artista la ricostruzione dell’intera basilica. La sagrestia e la cappella furono ultimate nel 1428 (le esequie di Giovanni furono celebrate in sagrestia l’anno successivo), ma il resto del cantiere andò avanti molto a rilento. Nel 1441 Cosimo il Vecchio si accollò quasi per intero le spese e assegnò la direzione dei lavori prima a Michelozzo e poi ad Antonio Manetti: quando anche lui morì, nel 1464, la chiesa era ormai stata consacrata e la sua tomba venne posta nel pilastro che si trova nella cripta sotto all’altare maggiore.
Altare maggiore della basilica di San Lorenzo: il riquadro colorato di fronte ad esso è la tomba di Cosimo il Vecchio.
Il nuovo edificio aveva mantenuto la tradizionale impostazione delle più importanti basiliche fiorentine (Santa Croce, Santa Maria Novella e Santa Trinita), che prevedeva una pianta a croce latina e cappelle nel transetto e nelle navate, ma con una rigorosa scansione modulare degli spazi, che riprendeva l’impianto prospettico del portico degli Innocenti 4 e lo sviluppava in modo simmetrico nelle due navate laterali. Tradotto significa: fu come prendere il loggiato dello Spedale e ricostruirlo dentro la chiesa in due blocchi, uno di fronte all’altro 😉. I lunghi tempi di costruzione e le modifiche successivamente apportate dal Manetti, non ci consentono di vederlo secondo il progetto iniziale di Brunelleschi 5, tuttavia nel suo insieme, l’interno di San Lorenzo ha mantenuto un aspetto armonioso e suggestivo.
La sagrestia Vecchia(1421-1428)
La Sagrestia Vecchia
Commissionata dai Medici come cappella funeraria di famiglia, è l’unica costruzione realizzata integralmente da Brunelleschi: i lavori terminarono nel 1428 e l’anno successivo vi si svolsero i funerali di Giovanni di Bicci, sepolto insieme alla moglie Piccarda Bueri nell’elegante sarcofago di marmo scolpito da Donatello e Andrea Cavalcanti (il figlio adottivo di Brunelleschi), che nel 1433 venne posto sotto al tavolo al centro della stanza e in asse con la lanterna della cupola. Sempre Donatello realizzò la decorazione in stucchi policromi costituita dal fregio sulla trabeazione con cherubini e serafini, le Storie di San Giovanni Evangelista nei tondi dei pennacchi della cupola, Gli Evangelisti nei tondi sulle pareti e le lunette con i Santi Stefano e Lorenzo e i Santi Cosma e Damiano sopra ai vani laterali con i battenti in bronzo delle porte: architettura e scultura sembravano fondersi in un insieme perfetto, eppure si racconta che Brunelleschi fu molto seccato dall’intervento dell’amico, che a suo parere aveva rovinato l’equilibrio della struttura.
La tomba di Giovanni di Bicci de’Medici e di Piccarda Bueri
La Sagrestia Vecchia fu concepita attraverso la combinazione di cubi e sfere, partendo dallo studio del modulo del cerchio iscritto nel quadrato che ebbe una grande fortuna stilistica.
L’ambiente è composto da due vani a pianta quadrata di diversa altezza, quello centrale, coperto da una cupola emisferica a ombrello con 12 spicchi e la scarsella affiancata da due piccoli ambienti di servizio: nella cupoletta sopra l’altare si trova il singolare affresco del Pesello che raffigura il cielo sopra Firenze nella data del 4 luglio 1442, probabilmente realizzato in collaborazione con l’astronomo Paolo dal Pozzo Toscanelli. Sulla parete sinistra si trova la tomba di Piero e Giovanni de’ Medici (rispettivamente il padre e lo zio di Lorenzo il Magnifico), celebre opera in marmo, bronzo e porfido eseguita nel 1472 da Andrea del Verrocchio.
Il ricetto a sinistra della scarsella con il lavabo del Verrocchio
Attualmente nel complesso è consentita la visita della basilica e della Sagrestia Vecchia senza obbligo di prenotazione; alla riapertura è tornato visibile il ricetto di sinistra in cui si trova un bellissimo lavabo in marmo attribuito sempre ad Andrea del Verrocchio. Per il chiostro e i sotterranei monumentali (in cui si trovano le tombe di Cosimo il Vecchio e Donatello) è invece prevista la visita guidata a orari prestabiliti, per cui vi consiglio di consultare sempre il sito dell’Opera Medicea Laurenziana.
La Cappella Pazzi in Santa Croce (dal 1429)
La Cappella Pazzi
Terminata la sagrestia in San Lorenzo, Brunelleschi accettò l’incarico per la costruzione della sala capitolare nel convento francescano di Santa Croce, a spese del ricco banchiere Andrea de’Pazzi: i lavori iniziarono nel 1433 e proseguirono con molta lentezza ben oltre il 1445, anno della morte del committente, che lasciò una grossa somma di denaro per il suo completamento. Nel 1446 morì lo stesso Brunelleschi e il cantiere risultava ancora aperto nel 1478, pertanto sembra difficile stabilire quanto l’edificio che vediamo oggi possa essere aderente al suo progetto originario. Certamente egli volle sviluppare il modello sperimentato nella Sagrestia Vecchia, ma trasse ispirazione anche dal cosiddetto Cappellone degli Spagnoli di Santa Maria Novella: l’ambiente è formato da un vano centrale a pianta quadrata 6 sormontato da una cupola, preceduto da un portico (forse la parte con le modifiche più rilevanti, terminata più di 30 anni dopo la morte dell’artista) e affiancato da una scarsella comunicante con un altro locale riservato alla sepoltura dei membri della famiglia Pazzi. Una panca in pietra serena corre lungo tutto il perimetro della cappella (del resto questa era usata come sala riunioni!) su cui poggiano lesene corinzie alternate ad archi tamponati sulle pareti; la decorazione è anche qui composta da un fregio in terracotta nella trabeazione, i Quattro Evangelisti nei pennacchi della cupola e i medaglioni con i Dodici Apostoli in terracotta invetriata di Luca della Robbia, legato a Brunelleschi da una fraterna amicizia.
La Cappella Pazzi fa parte del percorso speciale del Museo di Santa Croce. Gli orari e i giorni di apertura vengono continuamente aggiornati e anche in questo caso vi consiglio di consultare il loro sito e acquistare i biglietti on line.
Santo Spirito(dal 1434)
L’interno della basilica di Santo Spirito (Foto Sailko Wikipedia)
Fu l’ultima grande commissione affidata a Brunelleschi, la più originale e innovativa tra le sue costruzioni a Firenze. Egli aveva fornito il progetto per la ricostruzione della chiesa fin dal 1434, ma purtroppo i lavori non iniziarono prima del 1444, due anni prima della sua morte e quando la direzione del cantiere passò ad Antonio Manetti (in collaborazione con Giovanni da Gaiole e Salvi d’Andrea) furono apportate varie modifiche al progetto iniziale. L’impianto della basilica è molto simile a quello di San Lorenzo, di cui riprende il modulo e le misure 7, ma con le cappelle alte quanto le navate laterali e a forma di nicchia, disposte anche lungo tutto il perimetro del transetto. La complessa articolazione dello spazio e la ripetizione ritmica e regolare dei suoi elementi architettonici resero l’insieme estremamente dinamico, anche se nel piano di Brunelleschi era prevista una maggiore dilatazione delle strutture, con la costruzione delle cappelle in facciata (che così avrebbe avuto 4 ingressi), la volta a botte nel soffitto e soprattutto il profilo delle nicchie lasciato a vista lungo i fianchi esterni della chiesa, simili a quelli nel duomo di Orvieto 8. In pratica si sarebbe dovuto creare una sorta di effetto “rigonfiamento”, che però i suoi successori considerarono decisamente troppo ardito 9 e preferirono ricorrere a soluzioni più in linea con il gusto del tempo: tuttavia lo scorcio prospettico resta impressionante e difatti lo stesso Michelangelo ne rimase talmente colpito da dare a Santo Spirito il soprannome di “canneto”.
Nella basilica si trovano ben 38 cappelle, decorate da numerosi artisti in varie epoche: secondo il Libro di Antonio Billi 10 , Brunelleschi avrebbe disposto gli altari in modo diverso, staccati dal muro e senza ancone, in modo che il prete potesse dare <<il volto alla chiesa a dire messa>>, secondo l’antica tradizione paleocristiana. Ma anche in questo caso, dopo la consacrazione della chiesa, avvenuta nel 1481, si decise di adottare una tipologia più gradita alle famiglie committenti, con l’altare addossato alle pareti decorato da una pala quadrata con predella e paliotto11, come quelle che si vedono nel transetto, dove si trovano molte cappelle che hanno mantenuto l’originale arredo quattrocentesco: tra queste vi segnalo la cappella Corbinelli con la Madonna in trono col Bambino e i Santi Agostino e Pietro e soprattutto la bellissima Pala Nerli di Filippino Lippi. Altra opera di assoluto prestigio conservata nella sagrestia della chiesa è il Crocifisso di Michelangelo (1493), che l’artista scolpì per ringraziare il priore per la sua ospitalità e per avergli permesso di studiare anatomia praticando la dissezione dei cadaveri 12.
L’ingresso alla basilica è gratuito e non occorre la prenotazione. Per la visita della sagrestia, del Chiostro e del Refettorio è invece previsto il pagamento di un contributo di 2 euro a persona (link al sito della basilica).
Note
1 Lo spazio architettonico di Brunelleschi è misurato matematicamente ed è composto da unità modulari. Il modulo di riferimento dello Spedale è l’arco a tutto sesto con la sottostante campata con il lato pari a 10 braccia fiorentine (circa 5 metri). Se l’unità di base A è data dalla distanza tra le colonne e l’altezza di ciascuna colonna, A/2 sarà l’altezza di ciascun arco e 2A la distanza tra le gradinate e le finestre del primo piano.
2 Agli inizi del Quattrocento questi materiali erano molto convenienti per il basso costo, poi divennero largamente impiegati nell’architettura rinascimentale.
3 Una rara immagine del portico costruito da Brunelleschi è visibile nell’affresco di Benozzo Gozzoli a San Gimignano, nella scena delle Esequie del Santo, nel ciclo dedicato alla vita di Sant’Agostino.
4 La campata a base quadrata con il lato di 11 braccia fiorentine.
5 Nel progetto di Brunelleschi le cappelle erano a pianta quadrata e non rettangolare e dovevano fare il giro di tutto il perimetro (come a Santo Spirito). Anche il soffitto, decorato a cassettoni con rose dorate, doveva avere una semplice volta a botte.
6 Rispetto alla Sagrestia Vecchia vennero aggiunte due porzioni rettangolari simmetriche che ne raddoppiano l’ampiezza.
7 Il modulo di base è formato da una campata quadrata con lato di 11 braccia fiorentine.
8 Anche la cupola doveva essere diversa, come quella della Sagrestia Vecchia, più bassa, senza tamburo e con gli oculi nelle vele, che avrebbero dato maggiore illuminazione all’altare.
9 Non mancarono i difensori del progetto di Brunelleschi: tra questi vi fu l’amico Paolo dal Pozzo Toscanelli e l’architetto Giuliano da Sangallo, che invocò invano l’intervento del Magnifico.
10 Si tratta di un manoscritto conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale, scritto da un mercante fiorentino vissuto tra la seconda metà del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento: esso contiene una serie di notizie sulla vita degli artisti (come nelle Vite di Vasari) e anche se non è privo di errori resta una preziosa fonte di informazioni.
11 Il paliotto d’altare era la decorazione frontale di un altare e poteva essere dipinti, scolpito o anche ricamato.
12 Morto Lorenzo il Magnifico, Michelangelo si trovò in grosse difficoltà: egli aveva solo 18 anni e chiese ospitalità al priore del convento di Santo Spirito, che gli permise anche di condurre i suoi studi di anatomia, fornendogli i cadaveri da dissezionare.
Riferimenti bibliografici
Elena Capretti, Brunelleschi, Firenze, Giunti, 2003.
Il 7 agosto 1420 si dava inizio ai lavori di costruzione della cupola in muratura più grande del mondo. Un progetto studiato a lungo, ma su cui avrebbero scommesso in pochi. La profonda convinzione di un uomo in un ideale di bellezza puro, semplice, ragionato e il suo sogno di riportare in vita l’arte degli antichi. Racconto da anni l’impresa di Filippo Brunelleschi e ancora mi emoziono, perché poche altre storie hanno il fascino della nascita del Rinascimento a Firenze.
Foto Patrizia Messeri
Brunelleschi aveva iniziato a collaborare con l’Opera del Duomo fin dal 1404, quando al rientro dal suo primo soggiorno a Roma venne chiamato a pronunciarsi sulle dimensioni dei contrafforti del Duomo, ritenuti troppo alti. Negli anni successivi lavorò prevalentemente come orafo e scultore (a questo periodo dovrebbe risalire il Crocifisso di Santa Maria Novella) e si dedicò molto agli studi sulla prospettiva a punto di fuga unico, che ben presto furono resi noti1; risulta inoltre che egli abbia ricevuto dei pagamenti per consulenze e altre attività intorno alla fabbrica del Duomo.
Tra il 1410 e il 1413 venne eretto il tamburo, ma solo nel 1418 venne bandito il concorso per scegliere l’architetto a cui affidare la costruzione della cupola: ogni partecipante doveva fornire modelli o disegni per le impalcature, la muratura, i macchinari da impiegare durante i lavori ecc. ed il premio per il vincitore fu fissato in ben 200 fiorini d’oro.
Foto Patrizia Messeri
Come già era successo nel 1401, Brunelleschi si trovò in competizione con Lorenzo Ghiberti, ma questa volta non sarebbe stato a lui a mettersi da parte.
Sapeva che il suo progetto avrebbe suscitato scalpore e scetticismo e per convincere i membri della commissione costruì un modello fatto di mattoni e calcina, avvalendosi dell’aiuto dei suoi amici Donatello e Nanni di Banco2. Eppure l’Opera prendeva tempo e ancora nel marzo del 1420 non aveva assegnato l’incarico ufficiale; dopo molte pressioni, il 29 aprile, Brunelleschi fu nominato provveditore della cupola, affiancato da Lorenzo Ghiberti e due sostituti, Giuliano d’Arrigo detto il Pesello e Gherardo da Prato (vice di Ghiberti) che non mancò di rivolgergli aspre critiche.
La statua di Filippo Brunelleschi sotto il balcone del palazzo dei Canonici (Luigi Pampaloni, 1830)
I lavori di costruzione iniziarono quindi il 7 agosto 1420 e andarono avanti fino al 25 marzo 1436. I primi anni furono difficili e inquieti: pur essendo profondamente amareggiato dalla mancata dimostrazione di fiducia da parte dell’Opera, l’architetto decise di far emergere in ogni modo l’inadeguatezza dei suoi colleghi (soprattutto del Ghiberti) e arrivò a fingersi malato, aspettando che i consoli lo pregassero di tornare in cantiere. Egli pretese la netta spartizione dei compiti e nel 1423 venne finalmente nominato governatore capo, relegando il Ghiberti a mansioni marginali3: sembrava che non ci fossero più ostacoli per la realizzazione del suo sogno.
Foto Patrizia Messeri
Lo scetticismo prolungato nei confronti del progetto di Brunelleschi non era del tutto ingiustificato perché si trattava di un’opera dalle dimensioni imponenti: una volta terminata, sarebbe stata la più grande cupola mai esistita dopo il Pantheon a Roma e vi erano oggettive difficoltà di esecuzione. L’architetto sosteneva di riuscire a costruire la cupola senza la tradizionale armatura a centine, perché un sistema di travature appoggiate da un lato all’altro del tamburo non avrebbe mai retto il peso della struttura e nemmeno si poteva pensare a un’impalcatura da terra, visto l’altezza vertiginosa che avrebbe dovuto raggiungere. Si trattava perciò di un’impresa molto rischiosa e anche molto costosa, ma dal momento in cui assunse la piena responsabilità dell’intera fabbrica, egli sovrintese ad ogni aspetto e fase della sua attuazione, dalle forniture dei materiali, all’organizzazione interna dei turni di lavoro degli operai. Molto interessanti (e in parte ancora sconosciuti) sono i macchinari progettati da Brunelleschi per il sollevamento dei materiali sui ponteggi, come l’argano a tre velocità e la monumentale gru girevole, dei quali non esistono disegni lasciati dall’artista, ma solo le riproduzioni di altri ingegneri del Quattrocento come Bonaccorso Ghiberti4.
Il modello della cupola al Museo dell’Opera del Duomo
Qual è dunque il segreto che rende così speciale la Cupola del Duomo di Firenze?
Brunelleschi pensò ad una struttura leggera, non in muratura piena (come il tamburo sottostante) e formata da una doppia calotta, una interna e una esterna, che procedendo verso l’alto tendono ad assottigliarsi e avvicinarsi tra loro, ma restando sempre separate da una intercapedine. Ciascuna calotta è divisa in verticale da 8 vele unite da costoloni, concepite come porzioni della superficie di un cilindro e che si incurvano secondo un profilo a sesto acuto, mentre i costoloni corrispondono alla sezione di un’ellisse. Le due calotte sono collegate tra di loro da uno scheletro in muratura contenuto nell’intercapedine e costituito da 24 costoloni (compresi gli 8 d’angolo evidenziati all’esterno dal rivestimento in marmo) e 64 segmenti orizzontali che le tiene saldamente insieme attraversando lo spessore di entrambe: la gradinata che ancora oggi viene usata per salire sulla cima si trova all’interno dell’intercapedine, diramandosi in una serie di passaggi a partire dal piano del pavimento.
Per quanto riguarda la tecnica muraria, Brunelleschi introdusse per la prima volta il cosiddetto sistema della spinapesce, che consisteva nel disporre i mattoni su anelli paralleli in piano inframezzati da altre file in diagonale, assicurando una maggiore tenuta della muratura e senza ricorrere all’impiego della tradizionale armatura a centine in legno.
Foto Patrizia Messeri
Nel 1445 Brunelleschi iniziò a lavorare alle tribune morte, ossia i quattro tempietti a pianta semicircolare addossati al tamburo, ciascuno con cinque nicchie in marmo vuote e alla lanterna posta in cima alla cupola: egli morì un mese dopo l’inizio dei lavori, quando era stata edificata solo la base e venne completata da Bonaccorso Ghiberti. La lanterna ha la forma di un prisma a 8 facce con contrafforti agli angoli e finestre sui lati, in cui si trova il passaggio per arrivare alla palla dorata con la croce commissionata a Andrea del Verrocchio nel 1468.
Foto Patrizia Messeri
Note
1 Brunelleschi meditò a lungo sull’elaborazione di un nuovo metodo di applicazione della prospettiva e per dimostrare le sue tesi si servì di due esperimenti realizzati con l’ausilio di due tavolette di legno. La prima tavoletta doveva mostrare il Battistero visto dalla porta centrale del duomo e la seconda Piazza della Signoria vista dall’angolo con Via de’Calzaiuoli.
2 Dai registri dell’OPA risulta il pagamento del modello avvenuto il 29 dicembre 1419 per una cifra di 45 fiorini d’oro. Il modello rimase esposto in piazza fino al 1431.
3 Formalmente Ghiberti continuò ad affiancare Brunelleschi fino al 1433, percependo uno stipendio annuale di 3 fiorini d’oro; Brunelleschi invece si accordò per 100 fiorini d’oro all’anno e dal 1426 il suo incarico con l’OPA divenne esclusivo.
4 Questi macchinari vennero impiegati da Bonaccorso nella costruzione della lanterna, progettata dallo stesso Brunelleschi che morì un mese dopo l’inizio dei lavori.
Riferimenti bibliografici:
Elena Capretti, Brunelleschi, Firenze, Giunti 2003
Ecco il luogo ideale per la “fuga” da Firenze in queste calde giornate estive: Villa Grassina è un agriturismo con piscina e ristorante che si trova a pochi minuti da Pelago (a soli 25 km da Firenze), sulla strada del Vino Chianti Rufina e Pomino e alle porte del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi.
Qui le giornate scorrono all’insegna del riposo, della natura e del buon cibo, immersi nella mite atmosfera della nostra campagna e nella elegante cornice di una villa del Settecento.
Il giardino di fronte al ristorante
Sono stati i nostri amici Antonio e Manuela a farci scoprire Villa Grassina, quando a fine giugno ci hanno invitato alla festa per i loro 30 anni di matrimonio. Ad accoglierci abbiamo trovato Valentina, che gestisce la struttura e coordina gli eventi che si svolgono nella villa, ci ha mostrato i vari ambienti che ne fanno parte e ricordato che la storia di questa tenuta è iniziata molti secoli fa.
In origine era una torre di guardia, costruita nei possedimenti dei Conti Guidi di Romagna e che in un documento del 1229 viene indicata come piccolo insediamento alle dipendenze della vicina abbazia di Vallombrosa; nel Rinascimento la proprietà venne acquistata dalla famiglia Buondelmonti che fece unire gli antichi edifici medievali e li trasformò in una tipica villa padronale dell’epoca. Altri lavori vennero eseguiti nel Settecento quando passò ai Sansoni – Trombetta, con la creazione della piccola cappella funeraria nel parco. Seguirono lunghi anni di completo abbandono, finché nel 1991 la villa fu venduta agli attuali proprietari, ai quali si deve il complesso lavoro di restauro che ha permesso il recupero e il consolidamento delle strutture originali.
La cappella funeraria della famiglia Sansoni-Trombetta (Foto Patrizia Messeri)
Pavimenti in cotto, soffitti con massicce travi in legno e letti a baldacchino: sono ben 38 gli appartamenti di cui oggi dispone l’agriturismo, ricavati nella casa padronale e nelle vicine coloniche, tutti dotati di angolo cottura completamente attrezzato, TV satellitare, telefono, giardino o terrazzo.
I soffitti della villa (Foto Patrizia Messeri)
Poco lontano il bosco e oltre 50 ettari di terreni coltivati e ulivi, che circondano anche la piscina e il campo da tennis. I più piccoli hanno a disposizione un’area giochi vicino al ristorante e per chi ama i prodotti tipici della fattoria, c’è il negozio in cui si vendono vino, miele, olio, marmellate, grappe e piccoli oggetti dell’artigianato locale.
Una delle coloniche con gli appartamenti (Foto Patrizia Messeri)
Sono tornata a Villa Grassina in occasione di un Aperitivo in villa (tra gli eventi in programma ogni settimana) e di recente, con la mia famiglia.
Abbiamo trascorso una splendida giornata, per cui ringrazio nuovamente Valentina, che si è occupata di tutto con la sua consueta premura e cordialità: pranzo a sacco a bordo piscina, nel tardo pomeriggio uno spritz in giardino e infine cena alla carta al ristorante.
Quando siamo arrivati la piscina era tutta nostra!
Tra i nostri “vicini di ombrellone” abbiamo sentito parlare in francese e tedesco e nel pomeriggio si sono aggiunti dei giovani italiani venuti per festeggiare un compleanno. Valentina ci ha raccontato delle difficoltà del momento, dovute alla lunga chiusura e alla crisi del turismo internazionale: in questi anni la villa ha accolto moltissimi ospiti stranieri, ma nel 2020 la loro presenza sarà fortemente ridotta, così come l’organizzazione di cerimonie esclusive come i matrimoni. La situazione attuale, tuttavia, può dare a noi l’opportunità di riscoprire i tanti luoghi di inattesa bellezza come questo, sparsi nel cuore della Toscana.
Arrivederci Villa Grassina, torneremo presto a trovarvi!
Il paesaggio che circonda la villa (Foto Patrizia Messeri)
In origine era chiamato “Podere di San Francesco”, un terreno di proprietà dei padri filippini sulla collina di San Miniato, proprio sotto a Piazzale Michelangelo e da cui di gode di una bella vista panoramica sulla città.
Fontana
Nell’Ottocento, l’area fu acquistata da Attilio Pucci, capo–giardiniere dell’Orto Botanico (poi nominato Soprintendente Comunale dei Giardini e dei Pubblici Passeggi) e collaboratore di Giuseppe Poggi durante i lavori previsti nel grande piano di risanamento per Firenze Capitale. Egli amava raccogliere specie rare di piante (fece arrivare numerosi campioni essiccati per l’Herbarium Centrale Italicum e semi della preziosa Victoria Regia) e dette una nuova sistemazione al giardino, creando dei terrazzamenti in cui venne sistemata la sua collezione di rose. Poggi si occupò del complesso impianto idrico che alimentava le vasche delle Rampe e la fontana più grande del giardino, in seguito venduto al Comune e aperto al pubblico per la prima volta nel 1895, in occasione della Festa delle Arti e dei Fiori, organizzata dalla Società di Belle Arti e dalla Società Toscana di Orticultura.
Attualmente il giardino ospita circa mille varietà botaniche e ben 350 specie di rose antiche, insieme ad altre piante, come limoni e glicini.
La vista panoramica dal giardino
Nel 1998 la città di Kyoto e il tempio Zen Kodai-ji hanno fatto dono al Comune di Firenze di un’oasi Shorai, un piccolo giardino in stile karesansui (ossia dal paesaggio “secco”, caratterizzato da pietre e rocce) progettato dall’architetto Yasuo Kitayama e con al centro un grande albero di pino, simbolo di felicità e di benessere. In giapponese la parola sho significa pino, mentre shorai vuol dire futuro e dunque l’artista ha voluto rivolgere un invito alle città di Kyoto e di Firenze, gemellate da molti anni, per mantenere a lungo questo profondo legame. Nel 2012 l’allestimento iniziale si è arricchito di una cascata e di una pagoda per il Te.
L’oasi giapponese Shorai in stile karesansuiL’oasi giapponese Shorai in cui si intravede la pagoda per il Te.
Il Giardino delle Rose accoglie inoltre le opere del famoso scultore belga Jean-Michel Folon, che nel 2005 organizzò a Forte Belvedere la sua ultima grande mostra monografica, che si concluse poche settimane prima della sua morte (avvenuta il 20 ottobre 2005): si tratta di 10 statue in bronzo e due in gesso, donate dalla moglie nel 2011 alla città di Firenze.
Partir (2005) è la grande valigia collocata sulla terrazza all’ingresso del Giardino delle Rose che fa da cornice alla vista panoramica della città.
Il Giardino delle Rose è aperto tutti i giorni dalle ore 9 alle ore 20. Ingresso libero.
Dopo la Pasqua a porte chiuse, il 2020 riserva ai fiorentini un San Giovanni senza “fochi”. Nel rispetto delle norme anti-assembramento, infatti, non potremo assistere al consueto spettacolo dei fuochi d’artificio dai lungarni e la tanto attesa finale del Calcio Storico nella tradizionale cornice di Piazza Santa Croce. Ci attende dunque una giornata diversa dal solito e sicuramente più “tecnologica”, con numerosi eventi trasmessi in streaming.
“San Giovanni x3”: la prima novità di quest’anno è la condivisione della festa del santo patrono con le città di Genova e Torino. Le iniziative e le manifestazioni organizzate nelle varie città saranno trasmesse attraverso il format “Notte di San Giovanni” sul sito sangiovannix3.it e su RayPlay, Rai Premium (canale 25 DT) e Rai News (canale 48 DT) dalleore 21. A Firenze, alle ore 17.30 il maestro Zubin Mehta dirigerà il concerto del Maggio Musicale in Duomo, mentre nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio ci saranno collegamenti con alcuni importanti ospiti del mondo dello spettacolo, come i cantanti Diodato, Irene Grandi e Niccolò Fabi e l’attore Pier Francesco Favino. Carlo Conti parteciperà con padre Bernardo Gianni dalla suggestiva abbazia di San Miniato al Monte.
Musei aperti gratis: l’ingresso alla Galleria dell’Accademia sarà gratuito per i residenti a Firenze (orario 9-14, occorrerà esibire un documento d’identità che attesti la residenza in biglietteria), mentre i Musei Civici Fiorentini saranno gratuiti (ma conprenotazione obbligatoria) per tutti i visitatori. Dalle ore 10 alle 15 sarà aperto il Museo di Palazzo Vecchio (compreso il Salone dei Dugento), mentre nel pomeriggio, dalle 15 alle 20 saranno aperti il Museo Bardini e il Museo del Novecento.
Le squadre del Calcio Storico in PiazzaSanta Croce: alle ore 18 i calcianti e il Corteo Storico sfileranno di fronte a medici, infermieri, operatori sanitari e volontari della Protezione Civile e delle associazioni impegnati a fronteggiare fin dai primi giorni l’emergenza del Coronavirus.
Spettacolo di luci: al posto dei fuochi alcuni luoghi della città, come la cupola del Brunelleschi, la facciata di San Miniato a Monte, il loggiato dell’Istituto degli Innocenti e le antiche porte della città (Porta San Gallo, Porta alla Croce, Torre di San Niccolò, Porta Romana, Porta al Prato e Porta San Frediano) saranno illuminati da fasci di luce.
Questa puntata di Resilienza Rosa mi ha portato in via Gran Bretagna a Firenze, dove ho fatto visita alla maestra artigiana Irma Schwegler, titolare della Old Fashion Sartoria. Nata a Lucerna, in Svizzera, questa brillante e simpatica signora di 56 anni, si è trasferita qui nel 1991 e dopo varie esperienze nel settore della moda e della confezione, nel 2002 ha deciso di aprire la sua bottega e lanciare la sua idea di sartoria artistica.
Irma realizza capi di abbigliamento e accessori per uomo e per donna di alta qualità e su misura, prodotti con tessuti ricercati e fibre naturali (lane cotte, lino e seta).
Ogni articolo che esce dal suo laboratorio è frutto della creatività e del grande amore che ha per questo mestiere fin da bambina.
Irma, si potrebbe dire che sei nata con l’ago in mano..«Sono la quinta di otto figli e sono cresciuta in una famiglia in cui si era abituati a fare di tutto: da piccola ero molto curiosa e volevo imparare a cucire come la mamma e la nonna. Stavo molto attenta a tutti i passaggi e loro mi hanno insegnato a fare i primi lavoretti». La persona che l’ha maggiormente indirizzata verso le sue scelte, però, è stata sua sorella maggiore: «Maria ha voluto fare la sarta e io l’ho seguita: leiè sempre stata di grande ispirazione per me, mi ha aiutato a crescere e ancora oggi abbiamo molte cose in comune».
Al suo arrivo in Toscana Irma è rimasta colpita dalle linee e dai “tagli” tipici del nostro abbigliamento e in particolare dal “country-chic”, che ha attirato la sua attenzione per la semplicità e il buongusto, l’uso di stoffe pregiate e la massima cura nei dettagli. «Ecco», mi ha detto, «quando ho visto quel tipo di abiti, ho pensato: è questo che io voglio fare nella vita» e da qui ha elaborato un suo stile personale, in cui la tradizione si lega con l’innovazione: pantaloni, gilet, mantelle, gonne e altri classici vengono rivisitati in chiave moderna e diventano pratici abiti da portare tutti i giorni.
Oltre al talento e la manualità, un altro elemento di fondamentale importanza in questo settore è lo studio delle materie prime con particolare attenzione alla sostenibilità e la ricerca di nuovi prodotti e strategie per l’innovazione dell’artigianato locale.
Parlando di tessuti ricavati dalle fibre naturali, oltre al lino e alla canapa (che tutti ben conosciamo) ho scoperto che le più recenti sperimentazioni hanno riguardato la ginestra e l’ortica: «Dall’ortica si ottiene un filato simile al lino, molto adatto per l’estate.. e non pizzica!»
Irma chi sono i tuoi clienti? «La mia è una clientela medio-alta, direi di nicchia. Si tratta di persone che amano i capi fatti su misura, di quelli che tornano perfettamente addosso.»
Vi è inoltre l’aspetto “umano” di questo lavoro e non inteso solamente come contatto fisico con le persone che si recano nel suo negozio.
Mi spieghi meglio che cos’è la “sartoterapia”?: «Veramente la parola l’aveva inventata per scherzo il mio compagno, al quale raccontavo spesso quello che mi succedeva durante la giornata. Le persone si confidano con me, soprattutto quando siamo da soli nel camerino di prova, magari mentre sto prendendo le misure per fare una giacca o una gonna nuova. Io semplicemente ascolto, ma questo a loro fa piacere, perchè in fondo il tempo che passano con me è un momento che dedicano a se stessi e se hanno un problema o una preoccupazione si sfogano e poi vanno via contenti. E allora il mio compagno diceva che stavano meglio perchè avevano fatto la seduta di sarto-terapia.»
Durante la mia visita sono rimasta anche molto colpita dal rapporto di Irma con i giovani.
Oltre ad essere una docente di modellistica e confezione presso lo IED – Istituto Europeo di Design, permette regolarmente agli studenti di svolgere il tirocinio presso la sua bottega ed è assolutamente convinta dell’importanza dell’insegnamento per trasmettere ai ragazzi la passione e gli strumenti necessari per portare avanti questo mestiere. E’ così che qualche anno fa è arrivata Veronica, che dopo i corsi ha iniziato a lavorare nel suo laboratorio e oggi è praticamente diventata la sua “mano destra”. Ho trovato bellissimo il loro rapporto: una collaborazione intensa e un’intesa perfetta, che si è rivelata, ad esempio, quando ho chiesto a Irma di descriversi con 3 aggettivi e a rispondere è stata Veronica con “AAA: appassionata, artistica, agguerrita”.
La crisi provocata dalla pandemia di Covid-19 ha colpito anche la Sartoria, che è rimasta chiusa per oltre due mesi: Irma mi confessa di aver vissuto molto male i primi giorni di lock down, ma poi ha iniziato a pensare a cosa poteva fare e ha usato quelle settimane per migliorare la vendita on line sul suo sito:«Abbiamo introdotto la novità delle mascherine in cotone lavabili: le prime sono state vendute in America e sono disponbili in venti tipi diversi, su internet e in negozio.»
Come si svolge una tua giornata tipo adesso? «La giornata tipo non esisteva nemmeno prima, perchè ogni giorno da quella porta può entrare una persona con una richiesta diversa. Oppure attraverso il sito internet, tutto ormai è diventato imprevedibile. L’unica certezza che abbiamo in questo momento è che ogni mattina alle 8 ci sono le sanificazioni. Per il resto è difficile fare previsioni realistiche per il futuro, dobbiamo solo crederci e andare avanti giorno per giorno.»
Lascio Irma e Veronica a “fare cose” in bottega, anche perchè si è fatta l’ora di pranzo. Ma tornerò presto: quelle mascherine viola Fiorentina devono assolutamente essere mie 🙂
Old Fashion Sartoria è anche sui social! Seguite i profili Facebook e Instagram:
La protagonista di questo nuovo articolo di Resilienza Rosa è Lucia Montuschi, amica, collega e stimata professionista del settore turistico a Firenze. Lucia ha 55 anni ed è nata a Firenze, “nei giorni di Natale”: fino all’età di 15 anni ha vissuto nella zona di Piazza Puccini (“dove ho trascorso una splendida infanzia e adolescenza”), poi con la famiglia si è trasferita fuori città, “ma il centro per me, rimane sempre Firenze”.
Mi descrivi te stessa con 3 aggettivi? «Cara Elena, che bella domanda! Descriversi è come guardarsi allo specchio, il rischio è di trovarsi tanti difetti e non piacersi, o non trovarne affatto e fare la fine del povero Narciso. Tu però hai detto 3 e allora ti dirò che sono ambiziosa, determinata e leale. La persona che sono è il risultato di molti passaggi e di molte esperienze che ho attraversato e che mi hanno cambiata; alcune non vorrei mai doverle riaffrontare, altre le rifarei subito, ma la vita scorre e questa è la sua bellezza.»
Io e Lucia ci siamo conosciute circa venti anni fa: all’epoca io ero ancora una guida giovane e inesperta (avevo 22 anni quando ho cominciato! ndr) e guardavo a lei e altri colleghi come un modello di riferimento. Ancora oggi riconosco e apprezzo la competenza e la passione che mette nel suo lavoro e che nasce dal suo grande amore per l’arte. Tutto è iniziato ai tempi del liceo (“anche se da bambina sognavo di fare la missionaria in Africa e da ragazzina la truccatrice per il teatro”), dove ha incontrato una bravissima insegnante che le ha trasmesso il suo interesse per la materia. Così si è laureata e specializzata in Storia dell’Arte; in seguito ha iniziato a collaborare con la Sezione Didattica degli Uffizi e ha capito che quello era il mestiere che voleva fare.
Lucia ha lavorato molti anni come guida turistica (e lo fa ancora) e dal 2012 è la titolare di Exclusive Connection un’agenzia turistica di incoming, che ha sede nel bellissimo complesso delle Murate: «Ci occupiamo per lo più di turisti in arrivo in Italia, organizziamo gli hotel, i trasporti e le loro escursioni; inoltre organizziamo eventi per privati e aziende e itinerari nuovi e speciali in tutte le città, ma soprattutto qui a Firenze.»
Lavorare nel mondo del turismo è certamente impegnativo ma assai stimolante: è un ambito che offre una vita dinamica, ricca di soddisfazioni, ma dai ritmi decisamente “alti”.
Incontrare, organizzare e realizzare in una sorta di corsa contro il tempo (“quasi fosse una sfida”) era la modalità alla quale un po’ tutti noi operatori del settore eravamo abituati e che questa quarantena appena trascorsa ha totalmente stravolto.
Lucia ci racconti una tua “giornata tipo”? «Ecco…E adesso quale ti racconto? Quella che facevo fino al 23 febbraio 2020 o quella che faccio adesso? Sai che sono due vite tanto diverse, dove l’unico fattore che fa la differenza è il tempo. Lui..il nemico di sempre è stato annientato. Anzi, adesso ne abbiamo così tanto. E allora preferisco raccontarti la vita che faccio adesso, in cui mi alzo la mattina e porto fuori Lola, la canina della mia mamma, vado a prenderle il giornale, il pane e poi mi fermo da lei per un caffè, che ha proprio un buon sapore e che avevo dimenticato.. Poi torno a casa mia, rimetto un po’ in ordine e mi metto al computer e passo la giornata tra la posta, i progetti, le cose da leggere, le telefonate. Faccio tutto senza fretta e con piacere.»
Durante il lock down però, Lucia è stata molto attiva sui social, con la sua rubrica su Instagram #leoperesceltedaLucia, in cui presenta un’opera d’arte diversa al giorno, da uno dei cataloghi della sua amata libreria.
Hai un hobby o una passione in particolare? «Amo l’arte e la mia passione è viaggiare, conoscere e visitare. Sono anche una subacquea e il mare è il mio elemento preferito.»
Se fossi un’opera d’arte quale saresti? «Un bel ritratto in cui si vedono gli occhi.»
Hai fiducia nel futuro? Cosa credi che succederà nei prossimi mesi? «Ho fiducia nel futuro, ne dobbiamo avere tutti. Mamma mi ricorda ogni giorno che lei ha passato la guerra e passerà anche questa pandemia! Quindi avanti, senza mai voltarsi indietro, che la vita è sempre piena di sorprese e soprattutto è bellissima!»
Condivido pienamente il pensiero di Lucia. Lentamente torneremo a una normalità che forse non sarà la stessa di prima. O forse sì. E stavolta il tempo sarà nostro alleato.
Firenze, 2 giugno 2020.Questa sono io. Sono io che ritorno nella casa del David di Michelangelo, dopo il lungo periodo di chiusura dovuto alla pandemia da Covid-19. Adesso che faccio anche la blogger, dovrei riuscire a trovare le parole giuste per descrivere questa foto, eppure non è così semplice: questa camminata resterà un ricordo indelebile nella mia memoria e ringrazio l’amica e collega Paola di you&florence.com per il prezioso scatto.
Dopo quasi 3 mesi, anche la Galleria dell’Accademia ha riaperto le sue porte al pubblico: il percorso all’interno del museo è rimasto sostanzialmente lo stesso, anche se diverse sale al momento restano chiuse, come la sezione degli strumenti musicali, le sale del primo piano e quelle della pittura del Due-Trecento. I visitatori potranno orientarsi grazie alle frecce poste sul pavimento con del nastro adesivo e mantenere la corretta distanza con le altre persone presenti in galleria grazie a “The right distance“, l’app realizzata da Opera Laboratori Fiorentini (disponibile per sistemi iOS e Android) che potrà essere scaricata gratuitamente sul proprio smartphone e avviserà l’utente quando scenderà sotto la soglia di sicurezza. Vi ricordo inoltre la diminuzione del costo del biglietto intero da 12 a 8 euro e la possibilità di prenotare telefonicamente tramite il call center di Firenze Musei (055-294883) oppure tramite la piattaforma B-Ticket (la prenotazione costa 4 euro).
Non sono consentite visite guidate fino a nuove disposizioni 😦
Il primo ambiente del museo è la Sala del Colosso, che deve il suo nome a uno dei modelli in gesso dei Dioscuri di Montecavallo – presente in galleria fino agli inizi del Novecento – e oggi ospita il modello in gesso del Ratto delle Sabine, sublime opera del Giambologna, eseguita intorno al 1580 per la Loggia dei Lanzi. Nella sala sono esposti i dipinti di grandi artisti come Filippino Lippi, Botticelli, Domenico Ghirlandaio e Perugino, che vi introducono nel clima culturale al tempo della formazione artistica di Michelangelo. Una delle opere più importanti è la grande Pala di Vallombrosa, dipinta nell’anno 1500 da Perugino (sul bordo inferiore si legge chiaramente l’iscrizione “PETRVS PERVGINVS PINXIT A.D. MCCCCC”) raffigurante l’Assunzione della Vergine, in cui una morbida luce avvolge gli eleganti personaggi, come la sofisticata figura di San Michele Arcangelo, rappresentato nella sua raffinata armatura. Accanto a questa si trova un’altra opera completata da Perugino, la Deposizione di Cristo dalla Croce: la pala, proveniente dalla basilica della SS. Annunziata era stata iniziata nel 1504 da Filippino Lippi, di cui si riconosce il tratto più “nervoso” nella parte superiore del dipinto e che contrasta con la compostezza tipica delle figure del Perugino nel registro inferiore. Vi segnalo anche il bellissimo Cassone Adimari (1450 ca.), attribuito allo Scheggia, fratello di Masaccio, in cui si vede un corteo nuziale che si svolge per le strade di Firenze (si riconosce il Battistero!) con i personaggi che offrono un interessante spaccato sulla vita e l’abbigliamento nella città del Quattrocento. Di piccole dimensioni, ma peraltro facilmente riconoscibile, è la cosiddetta Madonna del Mare (1477 ca.) opera attribuita a Botticelli, in cui il mare, visto attraverso una finestra fa da sfondo alle figure della Vergine e del Bambino.
Ma immagino che la maggior parte di voi non verrà qua per i dipinti.
La Galleria dell’Accademia ospita il grandioso David di Michelangelo,la statua più bella e famosa scolpita per la città di Firenze nel 1504 e giunta in questo museo nel 1873.
Il “gigante” di marmo si trova nella Tribuna costruita appositamente per lui e che permette ai visitatori di osservare l’opera da diversi punti di vista. In origine il David doveva essere posto su uno dei contrafforti della cattedrale: nel Quattrocento, Agostino di Duccio e Antonio Rossellino avevano già messo mano a quel blocco di marmo dalle enormi dimensioni, ma data la pessima qualità della pietra entrambi avevano rinunciato all’impresa, ritenendola impossibile. La statua giaceva abbandonata da circa 40 anni nella bottega dell’Opera del Duomo, quando Michelangelo venne interpellato circa la possibilità di completare l’opera: si trattava di una vera e propria sfida che lo impegnò nei successivi 3 anni, lavorando da solo, con passione e tenacia. Una speciale commissione decise di sistemare il David proprio di fronte all’ingresso di Palazzo Vecchio – dove oggi si trova la sua copia – e fu così che divenne il simbolo della Repubblica Fiorentina.
Nel museo è inoltre possibile ammirare la più importante collezione di pezzi non finiti dell’artista: i Prigioni, il San Matteo e la Pietà da Palestrina. Queste poderose figure maschili nude e compresse nel blocco di marmo suggeriscono l’idea di un uomo che cerca di uscire a fatica dalla pietra e suscitarono l’ammirazione tra i contemporanei dello scultore, che ne decantarono la dinamica tensione dei corpi.
Il Prigione “Atlante”
Le statue incompiute dei Prigioni, facevano parte della decorazione per la tomba di papa Giulio II della Rovere a Roma, che per diverse ragioni non fu mai portata a termine da Michelangelo e verrà ricordata come la “tragedia della tomba”, visto che il progetto originale venne modificato per ben 5 volte nell’arco di 40 anni! Il San Matteo era invece una commissione dell’Opera del Duomo, rimasta incompiuta per la partenza dell’artista per Roma, mentre per la Pietà da Palestrina non esistono riferimenti dell’epoca ed è una delle ultime opere attribuite a Michelangelo.
Sulle pareti intorno alla Tribuna vi sono altri dipinti che risalgono al periodo della Controriforma, in cui sono ancora evidenti le influenze dello stile di Michelangelo, ma che già risentono del nuovo clima spirituale dell’epoca, caratterizzato da una maggiore sobrietà nello stile, ben evidente nelle opere del pittore Santi di Tito.
Da qui si entra nella Gipsoteca, il regno di Lorenzo Bartolini e Luigi Pampaloni, tra i più noti e ricercati scultori nell’Ottocento a Firenze.
La Gipsoteca Bartolini
In passato, questa era la corsia delle donne dell’antico spedale di San Matteo, che nel Settecento fu annesso ai locali dell’Accademia e di cui resta traccia nel piccolo affresco a mocromono verde che si vede sulla parete sinistra e attribuito al Pontormo. Oggi vi si conserva una straordinaria collezione di gessi modellati dai due artisti: statue a figura intera, busti ritratto e monumenti funebri, molti dei quali commissionati dalle ricche famiglie nobili inglesi, russe, polacche che all’epoca vivevano in Toscana ed erano protagoniste dei salotti e degli ambienti culturali dell’epoca. La visita del salone è molto interessante anche perchè sui modelli sono ancora visibili i punti neri (in genere chiodi o punte metalliche) che venivano impiegati come misure di riferimento al momento di sbozzare il blocco di marmo.
Io e Machiavelli
L’itinerario di visita è praticamente giunto alla fine: dalla sala dei gessi si passa nella sala della pittura del XIII e XIV, in cui si trovano le opere di alcuni tra i più grandi artisti di epoca medievale come Giotto, Taddeo Gaddi, Bernardo Daddi, Giovanni Da Milano e Andrea Orcagna. Di particolare interesse il grande Albero della Vita, dipinto agli inizi del Trecento da Pacino di Bonaguida, una tavola in cui sono raffigurate le Scene della Genesi sul bordo inferiore, mentre il legno della croce ha la forma di un albero, da cui partono i rami su cui si trovano, come dei frutti, ben 47 medaglioni con Scene della Vita di Cristo.
Ingressi limitati, misurazione della temperatura, uso obbligatorio della mascherina e rispetto della distanza di sicurezza nei percorsi di visita: sono queste le principali disposizioni previste per l’adeguamento dei musei ai protocolli di sicurezza e prevenzione da Covid-19. Dopo Boboli e Palazzo Pitti, nei prossimi giorni molti altri luoghi della cultura riapriranno le loro porte al pubblico.
Riaperture di sabato 30 maggio
Basilica di Santa Croce. Fino al 21 giugno le visite alla basilica francescana saranno possibili solo nei fine settimana con orario 11-17 (sabato) e 13-17 (domenica). L’ingresso è gratuito, ma è obbligatoria la prenotazione online. Apertura speciale il 2 giugno per la Festa della Repubblica e il 24 giugno per la Festa di San Giovanni (orario 11-17). I visitatori potranno scaricare la nuova App Santa Croce sul proprio cellulare (disponibile gratuitamente negli store Google Play e App Store). Al momento non sono consentite visite guidate e di gruppo.
Museo Galileo. Il grande museo della scienza per adulti e ragazzi riapre dal venerdì al lunedì con orario 9.30-18.00. Apertura straordinaria nella giornata del 2 giugno con lo stesso orario. Si consiglia la prenotazione al numero 055-265311.
Lunedì 1 giugno riapre anche Palazzo Strozzi con la mostra “Aria” di Tomas Saraceno, in cui le istallazioni del visionario e creativo artista argentino conducono il visitatore in un mondo non umano, fatto di polvere, ragni e piante, che permette all’uomo di ritrovare la sua armonia con l’universo. Ingressi limitati, si consiglia la prenotazione online.
Riaperture di martedì 2 giugno
Musei civici fiorentini. Per il momento torneranno ad essere visitabili solo il Museo di Palazzo Vecchio, il Museo Bardinie il Museo del Novecento, che saranno riaperti in anteprima il 2 giugno, in occasione della Festa della Repubblica e poi regolarmente dal week end del 6 giugno per soli 3 giorni la settimana, il sabato, la domenica e il lunedì con orario ridotto dalle 14 alle 19. Resteranno ancora chiusi gli scavi archeologici, il camminamento di ronda e la Torre di Arnolfo. Gli ingressi ai musei saranno soggetti a limitazioni e sarà obbligatoria la prenotazione online: viene confermata la gratuità per i possessori della Card del Fiorentino, che dovranno comunque prenotarsi on line. Nel rispetto dei protocolli di sicurezza, verrà misurata la temperatura corporea all’ingresso del museo, dove un mediatore culturale sarà a disposizione dei visitatori per fornire alcune brevi spiegazioni degli spazi espositivi.
Giardino Bardini. Fino al 30 agosto, il parco panoramico famoso per la fioritura del glicine, sarà accessibile con un orario prolungato, dalle ore 8.45 alle ore 21.00, da lunedì a domenica (eccetto il primo e l’ultimo lunedì del mese). Per tutto il mese di giugno la facciata della villa (che per il momento resta chiusa) sarà illuminata dal tricolore della bandiera italiana e nella giornata del 2 giugno e in ogni weekend del mese, sarà offerta una colazione o una merenda gratuita a tutti i bambini che visiteranno il giardino insieme ai genitori. L’ingresso al parco è gratuito per i bambini e tutti i residenti dell’area metropolitana di Firenze e nelle province di Arezzo e Grosseto. Per altre gratuità e il costo del biglietto consultate questa pagina.
Galleria dell’Accademia. Il nuovo orario di apertura del museo del David di Michelangelo sarà dal martedì al venerdì dalle 9 alle 14 e il sabato e la domenica dalle 9 alle 18. Il costo del biglietto d’ingresso viene ridotto a 8 euro, ma è consigliata la prenotazione (chiamando il call center di Firenze Musei al numero 055-294883 oppure online tramite la piattaforma B-ticket), in quanto il numero massimo di visitatori consentito è di 50 persone. Non sono ammessi gruppi e alcune sale (comprese quelle del primo piano) resteranno chiuse.
Cappelle Medicee e Museo di Palazzo Davanzati. Per il mese di giugno, il mausoleo della famiglia Medici osserverà il seguente calendario: mercoledì – giovedì – venerdì ore 14.00-18.30/sabato – domenica – lunedì ore 9.00-13.30. Il numero massimo di visitatori ammessi è di 40 persone ogni ora. Il museo della Casa Fiorentina Antica di Palazzo Davanzati, invece, sarà aperto come segue: mercoledì – giovedì – venerdì ore 14.00-18.30/sabato – domenica – lunedì ore 14-18. Gli ingressi nella sale saranno contingentati (massimo 24 persone ogni ora – gruppi massimo di 6 persone) e percorsi di visita unidirezionali (la permanenza ai piani sarà limitata a 20 minuti per piano). Aperture speciali nelle giornate del 2 giugno e del 24 giugno con orario 9-18.
Resta temporaneamente chiuso, in ossequio alle disposizioni governative per l’emergenza Covid-19, il museo del Bargello. Riaprirà al pubblico il 4 Agosto 2020 con nuovi percorsi.
La riapertura delle Gallerie degli Uffizi è prevista per mercoledì 3 giugno.
“Resilienza Rosa”, la rubrica al femminile nata nel periodo di quarantena da Covid-19, mi ha dato la possibilità di intervistare diverse donne, che vivono e lavorano a Firenze e che con grande entusiasmo e disponibilità hanno accettato di raccontarsi attraverso il mio blog: tra di loro ho raccolto anche il pensiero di chi ha usato questo periodo per riflettere sulla propria vita e crede che questa esperienza sia un’opportunità di cambiamento e vada colta come un’occasione per migliorarsi.
La protagonista di questo nuovo articolo è l’Architetto Sofia Ferrer, che vive a Firenze dal 2002 – anno in cui si è trasferita qui per iniziare un Master in Architettura del Paesaggio – ma originaria di Lima, in Perù. Sofia è una bella donna di 44 anni, felice delle esperienze che ha vissuto in questi anni e con la voglia di continuare a imparare: una mente lucida e creativa, con la forza di chi vuole andare sempre avanti per raggiungere i propri obiettivi.
Diventare architetto è sempre stato il tuo sogno fin da bambina? «Da bambina volevo essere la “policia femenina” (la vigilessa). A 16 anni ho pensato che dovevo trovare un lavoro collegato all’arte per non stare davanti a una scrivania tutto il giorno: volevo un lavoro dinamico, a volte in ufficio, a volte fuori, ma sempre legato all’arte. E così decisi di studiare Architettura.»
Installazione architettonica “Studio sul vuoto” in Piazza M. D’Azeglio, Firenze, all’interno della manifestazione “Studi Aperti: L’architetto indispensabile”. Un’esperienza in piazza, per riflettere direttamente con le persone, su come lo spazio vuoto, che potrebbe facilmente identificarsi con il nulla, in realtà è un serbatoio di infinite possibilità.
Sofia è cresciuta in una “normalissima famiglia della cosiddetta classe media”, in cui non è mai stato fatto mancare niente a lei e i suoi due fratelli più grandi e dove fin da bambina, ha iniziato a conoscere ed amare l’Italia. La prima persona che le ha trasmesso la passione per il nostro paese e la sua cultura è stata la mamma, figlia di un medico appassionato della Divina Commedia di Dante, che le volle dare il nome di Beatriz Florencia. La mamma di Sofia sa parlare bene italiano perché lo ha studiato a scuola e insieme condividono l’interesse per l’arte, la musica e il teatro. Inoltre la sua migliore amica da ragazza era di origini italiane e lei era spesso invitata ai pranzi, le cene e le feste con la sua famiglia. Così poco dopo aver terminato gli studi ha deciso di realizzare il suo sogno e partire: «Sentii la fortissima necessità di dimostrare a me stessa di potermela cavare da sola […] Volevo farlo in totale autonomia economica, senza chiedere un euro ai miei genitori.»
Oggi Sofia è un architetto di successo e si occupa di Interior Design e Paesaggio.
Qual è l’aspetto che ami di più del tuo lavoro? «Sono felice quando creo, quando mi siedo davanti a un foglio di carta con una matita in mano e disegno ciò che penso e come dovrebbe funzionare l’oggetto a cui penso: è meraviglioso!Dal momento in cui mi sottopongono l’oggetto dell’intervento, io mi presento a lui con profondo rispetto di ciò che è, ciò che è stato e ciò che sarà. Lo studio, diventiamo amici, cerco di capire i suoi punti deboli ed è proprio in quei punti dove io intervengo per renderlo più forte. Lo rendo utile e bello per chi di lui avrà bisogno, ma soprattutto lo rendo testimone del nostro tempo perché in futuro possa raccontare alle nuove generazioni chi siamo stati.»
Ovviamente, oltre all’aspetto “poetico”, questa professione richiede anni di studio e di pratica in quanto «bisogna conoscere le normative, la storia, il paesaggio, il territorio, la cultura ecc. tutte cose che in Italia sono particolarmente complesse», ma anche un notevole sforzo di energie e concentrazione che non sempre viene pienamente compreso.
Otto anni fa Sofia ha incontrato una persona che ha dato una svolta decisiva alla sua vita: Anne Efuru Okaru, la nota designer nigeriana famosa in tutto il mondo.
La loro collaborazione è iniziata nel 2013: «Lei ha avuto fiducia in me, nelle mie capacità e io ho saputo ricambiare con la massima serietà e disponibilità nella gestione di ogni progetto che ho sviluppato insieme a lei. Ho imparato tantissimo dalle sue doti manageriali, creative, dalla sua ampia esperienza nel settore, ma ho ricevuto tanto anche a livello personale: la sua apertura mentale, la sua determinazione, la sua profonda consapevolezza della presenza di Dio in ogni momento della vita..»
Lounge della sede principale di Diamond AccessBank, nella città di Lagos (Nigeria). Uno degli ambienti del progetto complessivo in collaborazione con la nota designer Anne Efuru Okaru, Creative Manager del progetto.
In condizioni normali il loro lavoro va oltre la fase di progettazione e richiede la gestione dei preventivi e il coordinamento con un team di collaboratori esterni; inoltre molto spesso è necessario organizzare un programma di visite presso i fornitori per seguire da vicino la produzione degli ordini e siccome molte di queste aziende si trovano in altre regioni del nord d’Italia, Anne e Sofia sono abituate a trascorrere intere giornate fuori casa. Grazie allo smart working (“che di smart ha davvero poco per tutti!”) sono riuscite a mandare avanti i loro progetti anche durante la pandemia, sebbene, a parte le riunioni o gli spostamenti, Sofia gestisce buona parte del suo lavoro da casa: il suo home studio, infatti, le permette di seguire al meglio suo figlio che è ancora un bambino e ricevere i clienti come “ospiti”, in un contesto più accogliente.
Giardino della sede e casa famiglia della Fondazione Don Giovanni Zanadrea (onlus) a Cento, Ferrara
Hai un hobby o una passione in particolare? «La danza moderna. L’Ho scoperta 4 anni fa tramite un’amica che balla da anni e che mi ha convinto a provare. L’ho fatto e da allora non ho più smesso. Ballare mi fa stare proprio bene, non solo fisicamente, ma anche spiritualmente. Ho conosciuto persone meravigliose grazie alla danza.»
Se tu fossi un’opera d’arte saresti..? «Giuditta e Oloferne (la statua di Donatello in Piazza della Signoria ndr). Nei panni di Giuditta ovviamente. Non mi piacciono le ingiustizie e non mi piacciono le disuguaglianze, vorrei veramente un mondo di pari opportunità.»
Partecipazione dell’Arch. Sofia Ferrer alla tavola rotonda a conclusione dell’evento “Studi Aperti” presso la sede dell’Ordine degli Architetti di Firenze
Come a tutte le altre donne che ho intervistato chiedo anche a Sofia se ha fiducia nel futuro e cosa crede che accadrà nei prossimi mesi: «Certo che ho fiducia nel futuro! Siamo stati così male in mezzo a una situazione così incerta come questa generata dal Covid-19, che il futuro non può che essere positivo in tutti sensi. Abbiamo capito che ciò che diamo per scontato può non esserci da un giorno all’altro. Abbiamo riscoperto le cose semplici della vita, come passare momenti in famiglia, a casa, senza dover fare niente di speciale, soltanto stare insieme. Magari abbiamo ripreso in mano uno strumento musicale che da tanto tempo non suonavamo più: a me è successo di ricordare che un tempo scrivevo poesie. Abbiamo guardato le foto di quando eravamo piccoli… Insomma, abbiamo ricordato chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo.»
In realtà credo che Sofia lo abbia sempre saputo e io le auguro di continuare a camminare e intraprendere tanti nuovi brillanti progetti.
Giovedì 21 maggio, il Giardino di Boboli è stato il primo museo fiorentino a riaprire le sue porte ai visitatori: nel parco della reggia di Pitti valgono le norme previste dai protocolli per la prevenzione del Covid-19, per cui è obbligatorio l’uso della mascherina e il rispetto della distanza di sicurezza di 1,80 mt.
La definizione di “parco monumentale” forse gli va stretta, con i suoi 45.000 mq di superficie, su cui si estende uno straordinario patrimonio botanico e artistico.
Boboli è un autentico museo all’aperto, ricco di fontane, statue e grotte, che nella concezione tutta rinascimentale di fusione tra architettura e paesaggio, rappresenta il modello di riferimento di giardino all’italiana. In esso gli spazi sono suddivisi secondo una precisa idea di fondo, ossia che l’uomo possa modellare a suo piacimento la natura stessa e per questo si presenta come un giardino “geometrico”, caratterizzato dal rigore e dalla simmetria delle forme: un ambiente complesso e raffinato che nel Rinascimento divenne luogo di piacere e svago per i sovrani e i loro cortigiani.
Il Giardino di Boboli però, nasce come “orto” dei Pitti, un’area di circa 7 ettari appartenuta alla loro famiglia fin dal Trecento: bisogna infatti dire che questo spazio verde è molto più antico del grande palazzo che nel Quattrocento Luca Pitti fece progettare a Filippo Brunelleschi. Incerte sono le origini del nome: che cosa significa Boboli? Si è ipotizzato che possa essere una parola di origine etrusca o longobarda, oppure la deformazione del cognome della famiglia Borgoli (o Borgolo), vissuta nel popolo di Santa Felicita, anche se il luogo appare citato in vari documenti come “Bogole“.
Palazzo e terreni furono venduti nel 1549 a Eleonora di Toledo, moglie di Cosimo I de’ Medici, per la cifra di 9.000 fiorini d’oro: il progetto di ampliamento e sistemazione del giardino venne affidato a Nicolò Tribolo, che aveva già eseguito i lavori nella villa di Castello. L’architetto morì nel 1550 e la direzione del cantiere passò prima a Bartolomeo Ammannati e poi a Bernardo Buontalenti. Nel Seicento, all’epoca di Cosimo II (1609-1621) e Ferdinando II (1621-1670) il giardino venne ulteriormente ingrandito estendendosi verso Porta Romana e raggiungendo le dimensioni attuali: ulteriori interventi vennero realizzati al tempo dei Lorena, con la costruzione di edifici come la Limonaia e il Kaffehaus.
Rampa di accesso dal cortile dell’Ammannati
Passando dall’ingresso nel cortile si incrocia la Fontana del Carciofo (1639-1642) opera in stile barocco di Giovan Francesco Susini, assemblata con vari elementi scultorei già presenti nel giardino. Una piccola salita conduce all‘Anfiteatro, che prese il posto della vecchia cava di pietra forte con cui era stato costruito palazzo Pitti. Il Tribolo lo aveva progettato come una struttura di sola vegetazione (l’anfiteatro di verzura), ma al tempo di Cosimo II venne deciso di costruirlo in muratura e i lavori vennero ultimati nel 1634 da Giulio Parigi. L’anfiteatro ha fatto da sfondo a molte feste di corte, continuando ad essere usato anche al tempo dei Lorena, che però decisero di trasformare la platea in giardino, facendo istallare al centro un obelisco proveniente dalla villa Medici di Roma e una una grande vasca in granito.
L’Anfiteatro
Tra le grotte artificiali che si trovano a Boboli, la più importante è quella conosciuta come Grotta del Buontalenti (1557-1587) ma a cui lavorarono molti altri artisti. Gli interventi in questa parte del giardino erano iniziati fin dal 1551, per la costruzione di un acquedotto che portasse l’acqua fino a palazzo Vecchio: nel 1557 Davide Fortini – genero del Tribolo – aveva creato un vivaio, che qualche anno più tardi Giorgio Vasari aveva dotato di una bella facciata e poi era stato trasformato in grotta da Bernardo Buontalenti. Al suo interno vennero sistemati i Prigioni di Michelangelo, oggi sostituiti da copie in cemento.
La Grotta del Buontalenti
Meno conosciuta è la Grotta diMadama (1555), progettata sempre dal Fortini, nella zona del giardino che Cosimo I aveva riservato alla coltivazione delle piante nane: costituita da pareti in roccia spugnosa e decorata da statue di animali, nel Seicento le venne attribuito questo nome per Maria Maddalena d’Austria, moglie di Cosimo Il. Dal Settecento venne lasciata in stato di abbandono e ancora agli inizi del secolo scorso era usata come deposito di mobili (!)
Il giardino con la Grotta di Madama
Tra le costruzioni successive al periodo mediceo vi sono il Kaffehaus, raro esempio di architettura in stile rococò e luogo di sosta durante le passeggiate della corte al tempo di Pietro Leopoldo di Lorena, che fece anche allestire il giardino di Ganimede nell’area prospicente, con la bella fontana di Giovanni Battista Lorenzi. Vi è inoltre la grande Limonaia, progettata tra il 1777 e il 1778 da Zanobi del Rosso, sul luogo in cui trovava il serraglio degli animali di Cosimo III, per il ricovero delle piante di agrumi del giardino (ancora oggi ne ospita circa 500 durante il periodo invernale).
Vista panoramica con Kaffehaus
Il punto più alto di Boboli è il Giardino del Cavaliere, che si trova sopra uno dei bastioni delle fortificazioni costruite da Michelangelo durante l’assedio di Firenze nel 1529 e deve il suo nome al cavaliere Malatesta Baglioni, che abitò in un edificio costruito al suo interno: per accedervi occorre salire una scalinata a tenaglia progettata da Zanobi del Rosso (1790-93). Il giardino è composto da basse siepi di bosso in cui crescono dalie e rose, con al centro la Fontana delle Scimmie del Giambologna: qui sorge anche il Casino del Cavaliere, una palazzina fatta costruire da Cosimo III per il figlio Gian Gastone che la usava come ritiro e che oggi ospita il Museo delle Porcellane. Esso si trova al di sopra del grande bacino idraulico detto Vasca delleTrote, dal quale partono le tubature per l’irrigazione di tutto il giardino.
Il Giardino del Cavaliere
Il punto che invece ritengo più spettacolare è il cosiddetto Isolotto: si arriva qua dal Viottolone, un ampio viale alberato decorato da statue antiche e settecentesche poste agli incroci con tre viali trasversali: la parte a sinistra del Viottolone era in passato occupata dal labirinto e dalla ragnaia mentre quella a destra era riservata alla caccia. Ai fianchi del viale si trovano le Cerchiate, due suggestive gallerie coperte dalla vegetazione. L’Isolotto (o Vasca dell’Isola) venne progettato da Giulio e Alfonso Parigi nel 1618: essa è collegato con il piazzale da due passerelle, sulle quali vengono sistemate le piante della collezione di agrumi del giardino. Alle estremità si trovano due cancelli, sostenuti da colonne con la statua di un capricorno e delle fontane decorate da strane creature marine.
L’Isolotto con la Fontana dell’Oceano
Al centro dell’isola si trova la Fontana dell’Oceano del Giambologna, composta da una vasca in granito sopra la quale è posto un gruppo scultoreo in cui è raffigurato Nettuno circondato dalle divinità fluviali (Nilo, Gange, Eufrate). La fontana era stata scolpita nel 1576 per Francesco I e venne portata qui dall’Anfiteatro: quella che si trova nel giardino è attualmente una copia, mentre l’originale è conservato al museo del Bargello.
Lunedì 18 maggio 2020 in Italia ha ufficialmente avuto inizio la tanto attesa fase 2, il periodo di convivenza con il virus Covid-19, dalla durata ancora imprecisata ma che prevede l’adozione di nuove abitudini e di nuovi comportamenti sociali da parte di tutti noi. Per la riapertura delle attività economiche e produttive sono stati introdotti numerosi protocolli e nonostante i tanti dubbi e le incertezze del momento, a Firenze si respira aria di ripartenza. Il settore turistico-alberghiero è stato colpito da una crisi senza precedenti e molte strutture sono ancora chiuse, ma ci sono dei gestori che hanno deciso di riaprire, guardando con ottimismo a questa difficile fase di transizione.
Ho raccolto l’opinione di Giovanna Sorrentino, che insieme a suo marito Raffaele Di Giacomo dirige la N4U GuestHouse, incantevole dimora posta al secondo piano di un palazzo del XIV secolo, in pieno centro storico.
Giovanna è nata “alle falde del Vesuvio” e si è trasferita qui nel 2015: “Ricordo bene quel giorno, la tensione e la voglia di cominciare questa nuova sfida. Conoscevo Firenze, ci ero stata spesso in vacanza e ho sempre pensato che se avessi lasciato Napoli era proprio per vivere lì.” Questa brillante e intraprendente signora di 54 anni mi racconta che le piace passeggiare, andare in bicicletta e cantare, ma la sua più grande passione è il teatro, che è riuscita a trasmettere anche ai suoi figli (“in pratica conoscono tutte le opere di Eduardo de Filippo”). Da bambina sognava di fare il medico, ma poi la vita l’ha portata a lavorare nel mondo dell’ospitalità: ”E’ nato tutto per caso, quando anni fa, per aiutare degli amici, mi sono approcciata all’attività ricettiva in Costiera Amalfitana. Da lì è partita l’idea di cambiare vita e iniziare l’avventura nella splendida Firenze.”
La N4U è una casa bella e accogliente, particolarmente indicata per quelle persone che desiderano “circondarsi di storia” anche quando sono in viaggio.
La struttura conserva pavimenti e soffitti originali con affreschi d’epoca e dispone di sei camere, arredate con sobria eleganza. Un dettaglio che ho trovato molto originale è la presenza di lampadari antichi in ogni stanza – alcuni in pregiato vetro di Murano – che fanno parte della singolare collezione privata dei proprietari.
Giovanna segue e coordina i compiti da svolgere, controllando le camere e la preparazione della sala colazione, ma si occupa soprattutto della gestione del front-office, accogliendo gli ospiti al loro arrivo. È questa la parte del suo lavoro che ama di più perché le dà la possibilità di “incontrare persone e culturenuove“. Per lei e suo marito Raffaele è molto importante sapere che queste “avranno sempre un bel ricordo del loro soggiorno a Firenze” ed è proprio da questa voglia di offrire un’esperienza indimenticabile ai propri clienti che è scattata la molla per ricominciare.
I protocolli per la riapertura delle strutture ricettive prevedono l’attuazione di una serie di norme di sicurezza alle quali sarà data massima attenzione: “Con il graduale ritorno alla normalità la tutela della salute degli ospiti (e nostra) è prioritaria. Per questo motivo abbiamo predisposto un erogatore di disinfettante per le mani all’ingresso e dotato i nostri dipendenti dei necessari dispositivi di protezione (guanti, mascherina etc). Stiamo organizzando la colazione per fasce orarie di modo da non avere mai più di due camere (tavoli) contemporaneamente. Inoltre, abbiamo predisposto il pagamento attraverso la la tecnologia contactless, di modo da ridurre al minimo le possibilità di contatto durante la fase di check-in.”
Inoltre la Guest House propone l’acquisto di un Travel Bond, un voucher – sconto da spendere nei prossimi mesi per il vostro viaggio a Firenze.
Spirito positivo ed entusiasmo non mancano a Giovanna: “Ho fiducia nel futuro, soprattutto in questo periodo particolare. L’Italia ha dimostrato in più occasioni di essere in grado di rialzarsi da situazioni complicate e sono certa che lo faremo anche stavolta. Con l’impegno e le capacità del nostro tessuto imprenditoriale e con il giusto sostegno delle istituzioni sono certa che riusciremo a tornare più in forma di prima. Questa esperienza può darci spunto per migliorare ancora di più il nostro modo di fare impresa.”
Auguro a lei e tutto lo staff di N4U una felice ripartenza.
Una delle costruzioni più antiche di Firenze, ammirata per le sue linee semplici ed essenziali e di cui non si conosce ancora con esattezza l’anno di fondazione: è il Battistero di San Giovanni, citato anche da Dante Alighieri nella sua Commedia.
Partirò tentando di rispondere alla più semplice delle domande: “Quando venne costruito il Battistero?“, che poi tanto semplice non è. Secondo la tradizione popolare, esso sarebbe stato in origine un tempio dedicato al dio Marte, modificato e convertito all’uso cristiano nei primi secoli del Medioevo. Una teoria che trovò molti consensi soprattutto durante il Rinascimento, perché confermava l’idea di una linea di continuità tra mondo pagano e mondo cristiano, ma che purtroppo non ha mai trovato alcun tipo di riscontro storico o materiale. In effetti non esiste alcuna traccia di questo tempio e le uniche testimonianze di epoca romana che abbiamo, sono i mosaici di alcune domus risalenti al I secolo, rinvenuti durante una campagna di scavi alla fine dell’Ottocento. L’aspetto classicheggiante dell’edificio induce alcuni storici a ritenere che si tratti di una costruzione di epoca paleocristiana del V secolo, con rimaneggiamenti successivi, mentre altri sostengono che il battistero non sia stato costruito prima del XI secolo, sulle rovine di edifici precedenti.
Ma che cosa dicono le fonti scritte? Il primo documento che ne attesta l’esistenza è dell’anno 897, che però lo menziona come “chiesa di San Giovanni” (e non battistero). Risulta inoltre che la sua consacrazione avvenne nel 1059 sotto il pontificato di Niccolò II e che soltanto nel 1128 esso divenne ufficialmente il battistero della città. E qui sorge spontanea un’altra domanda: dove si battezzavano i fiorentini prima del XII secolo? Il rito era compiuto per immersione e benché del fonte sia rimasto solo un ottagono in cocciopesto, sappiamo che fino al Cinquecento esso si trovava al centro del pavimento: possiamo dunque supporre che i battesimi fossero celebrati in questo luogo pur senza un “accredito” solenne da parte delle autorità ecclesiastiche?
Vi è infine un’altra teoria più recente – che poi è quella verso la quale sono più propensa a credere – per cui il battistero sarebbe stato fondato nel V secolo per ricordare la memorabile vittoria del generale romano Stilicone sul re ostrogoto Radagaiso, che aveva messo sotto assedio la città di Firenze, ma era stato sconfitto e ucciso nella battaglia di Fiesole nel 406. Per celebrare questa impresa e lo scampato pericolo, le domus romane esistenti erano quindi state abbattute per far posto a un nuovo edificio, che non era propriamente un tempio, ma una costruzione pagana poi trasformata in edificio di culto cristiano.
Affresco della Loggia del Bigallo (1342) È la veduta più antica della città di Firenze in cui si riconosce il Battistero Foto Wikipedia
La decorazione esterna del Battistero è composta da tre fasce a riquadri geometrici in marmo bianco di Carrara e verde di Prato. La costruzione ha pianta ottagonale, che richiama la credenza dell’ottavo giorno, ossia quello che secondo la dottrina cristiana sarà il giorno del Giudizio Universale e della Resurrezione. Anticamente, il rito del battesimo era celebrato soltanto un paio di volte all’anno (generalmente nel periodo della Pasqua o della Pentecoste) e a ricevere il sacramento erano spesso persone adulte, che rendeva necessario l’uso di un edificio di grandi dimensioni.
Prima di entrare al suo interno facciamo un rapido giro intorno alle porte, oggi tutte sostituite con copie, mentre quelle originali, restaurate, si trovano al Museo dell’Opera del Duomo.
La prima è la Porta sud (1330-1336) di AndreaPisano, composta da 28 formelle, che raffigurano le Storie della Vita di San Giovanni Battista e le Virtù (teologali e cardinali, con l’aggiunta dell’Umiltà). Ogni pannello rappresenta una storia a sé stante, con scene dallo stile sobrio ed elegante, inserite all’interno delle caratteristiche cornici quadrilobate gotiche.
Battesimo di Cristo, porta sud del Battistero Foto Wikipedia
La porta nord (1403-1424) è quella relativa al famoso concorso del 1401 a cui parteciparono Filippo Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti, poi decorata proprio dal Ghiberti con 28 formelle che illustrano 20 scene tratte dal NuovoTestamento con i QuattroEvangelisti e QuattroDottoridella Chiesa.
Ultima cena, Porta nord del Battistero Foto Wikipedia
La porta più conosciuta del Battistero è la cosiddetta Porta del Paradiso (1425-1452) a cui lavorò sempre Lorenzo Ghiberti, al quale servirono ben 27 anni per realizzare uno dei capolavori assoluti del Primo Rinascimento fiorentino. La decorazione è composta da 10 riquadri di forma rettangolare con scene riprese dall’Antico Testamento, raffigurate con un rilievo in cui viene applicata la tecnica dellostiacciato.
Le Porte del Paradiso Foto GuardaFirenze
La decorazione interna del Battistero si ispira chiaramente all’architettura classica ed è presente molto materiale antico di recupero, caratteristica comune a tutti gli edifici di epoca romanica. Da notare la presenza del matroneo, il loggiato interno riservato alle donne, tipico delle chiese paleocristiane e mantenuto anche nei secoli successivi come elemento strutturale e decorativo delle navate. Alzando gli occhi verso la cupola vedrete il grande mosaico che si ritiene sia stato iniziato intorno al 1270 e completato circa 50 anni dopo, nel 1330. E’ probabile che, almeno nella fase iniziale, i fiorentini abbiano richiesto la collaborazione di maestranze veneziane (l’arte musiva non era esattamente tra le specialità locali) e che in seguito siano intervenuti vari artisti toscani, tra i quali si citano anche Cimabue e Coppo di Marcovaldo.
La decorazione è suddivisa in 8 spicchi e su varie fasce in cui, partendo dall’altro sono raffigurate le gerarchie angeliche e in tre degli spicchi sottostanti il CristoGiudice con il Giudizio Universale; negli altri spicchi si possono invece vedere le Storie della Genesi, le Storie della Vita di Giuseppe (figlio di Giacobbe), le Storie di Maria e Gesù e le Storie del Battista.
I mosaici del Battistero Foto GuardaFirenze
Tra gli arredi interni segnalo il sarcofago antico decorato con una scena di caccia al cinghiale, impiegato come sepoltura di Guccio de’Medici, Gonfaloniere di Giustizia nel 1299 e a destra dell’abside il monumento funebre a Baldassarre Cossa, l’antipapa Giovanni XXIII, deposto nel 1415 e morto nel 1419 a Firenze. Amico di Giovanni di Bicci de’ Medici, che aveva pagato il riscatto per la sua liberazione quando era stato fatto prigioniero in Germania, egli aveva espresso il desiderio di essere sepolto in una chiesa della città e l’esecuzione della tomba venne affidata alla “società” che proprio in quel periodo era stata fondata da Michelozzo e Donatello.
Se avete perso la diretta con il tour virtuale del Battistero trovate il video nel mio canale YouTube:
Sapevate che la favola del Porcellino di bronzo di Andersen è ambientata a Firenze? La nostra fontana portafortuna ha una lunga storia tra leggenda e fantasia.
Molte favole dello scrittore danese Hans Christian Andersen non si concludono con un lieto fine: mi vengono in mente, ad esempio, la piccola fiammiferaia che vola in cielo dalla sua nonna o il soldatino di piombo gettato nel fuoco. Tra queste vi è anche la storia di un povero bambino vissuto a Firenze e che una notte, stanco e affamato, si addormenta sul dorso della celebre fontana del Porcellino: il grazioso animale (che in realtà è un piccolo di cinghiale) venne scolpito nel Seicento da Pietro Tacca per il granduca Cosimo II e venne poi spostato alla Loggia del Mercato Nuovo. Secondo la tradizione popolare il Porcellino ha il potere di esaudire i desideri: tutto quello che dovete fare è sfregare forte il suo naso e mettere una monetina nella sua bocca. Se, lasciando cadere la monetina, riuscirete a farla entrare nella grata alla base della fontana, il vostro desiderio diventerà realtà e presto tornerete a Firenze! Devo ammettere che in questi anni molti dei miei ospiti mi hanno confermato che con loro aveva funzionato 🙂
La fontana del Porcellino Foto GuardaFirenze
Ma torniamo alla favola di Andersen. Il bambino che si era addormentato sulla schiena del Porcellino all’improvviso si risveglia e si accorge che l’animale è vivo e sa anche parlare! Gli sta dicendo di tenersi forte a lui, perché insieme faranno un bel giro “turistico” della città: il ragazzo vede le statue di Piazza della Signoria animarsi al suo passaggio e resta assolutamente affascinato dalla bellezza delle opere d’arte dentro alle Gallerie degli Uffizi. Questo sogno è davvero incredibile, anche se sembra tutto così reale…ma arriva il mattino, il bambino si ritrova dove si era addormentato e deve tornare di corsa a casa! Già immagina quanto si arrabbierà «colei che chiamava mamma» perché non ha portato niente con sé e siccome la donna ha una reazione molto violenta, decide di scappare e rifugiarsi nella chiesa di Santa Croce. Qui viene raccolto da un anziano signore che lo porta a casa sua. L’uomo vive con la moglie e una cagnolina chiamata Bellissima: di mestiere fa il guantaio e insegna al bambino a cucire. Lui ogni tanto torna alla fontana del Porcellino e gli parla, ma l’animale resta immobile e non risponde più: nel frattempo conosce uno dei vicini di casa della coppia, che lavora come pittore. Il ragazzino cerca di comportarsi bene, ma è curioso e vivace e qualche volta fa arrabbiare la signora, così un giorno il pittore gli regala un mazzo di fogli, in cui c’è anche un disegno del Porcellino: «Che bello saper disegnare e dipingere! Si può riprodurre tutto il mondo!» pensa il bambino .
La Tribuna degli Uffizi Foto GuardaFirenze
Il bambino inizia a disegnare e decide di fare un ritratto a Bellissima: lei però non sta ferma perché vorrebbe giocare e allora lui lega la coda e la testa della cagnolina che per poco non si strozza. La signora giunta proprio in quel momento crede che il ragazzo la stia maltrattando e lo caccia di casa, ma per fortuna arriva il pittore che lo salva.
Come finisce la favola del Porcellino di bronzo?
Siamo nel 1834 e all’Accademia di Firenze si svolge una mostra in cui sono esposti due quadri di un giovane artista: uno più piccolo in cui è raffigurato un ragazzino che fa il ritratto di un cagnolino, l’altro più grande in cui si vede un bambino vestito di stracci addormentato sulla fontana del Porcellino. «Si raccontava che il pittore fosse un giovane fiorentino che era stato raccolto dalla strada, era stato cresciuto da un vecchio guantaio e aveva imparato a disegnare da solo. Poi un pittore ora famoso aveva scoperto il suo talento quando il ragazzo era stato cacciato da casa perché aveva legato quel cagnolino, il prediletto della padrona, per prenderlo come modello.» Il grande dipinto era davvero splendido e tutti i visitatori si fermavano a guardarlo, ma purtroppo su un lato della cornice era stata appesa una corona di alloro con un nastro nero… sì, avete capito, il giovane pittore era morto proprio qualche giorno prima della mostra.
Questa fiaba ci lascia con un velo di tristezza, ma rileggendo tra le righe scoprirete che: «il porcellino di bronzo aveva insegnato al ragazzo che Firenze era come un libro di illustrazioni, se lo si voleva sfogliare.»
Guarda il video della storia del Porcellino sul mio canale YouTube!
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L’adorazione dei Magi di Sandro Botticelli è una tempera su tavola eseguita nel 1475 e conservata presso le Gallerie degli Uffizi a Firenze. Più che un dipinto, lo potremmo definire il manifesto di un’epoca: vi sono infatti raffigurati molti componenti della famiglia Medici, legata da rapporti di affari al committente Gaspare Zanobi del Lama e lo stesso pittore che ci ha lasciato il suo autoritratto, oltre alle interessanti novità stilistiche della sua composizione.
La fontana del Porcellino, opera in bronzo dello scultore Pietro Tacca. Un’icona della città di Firenze e protagonista di una bella fiaba dello scrittore danese Hans Christian Andersen.
Ammetto di essere stata molto combattuta nel prendere questa decisione e desidero esprimere con chiarezza il mio punto di vista: nessuna esperienza di tipo “virtuale” potrà mai essere paragonabile a una visita guidata “reale”.
Tuttavia, in quello che sarà l’anno horribilis della professione di guida turistica, credo sia arrivato il momento di fare di necessità virtù e pur con una certa cautela, adottare nuovi strumenti di divulgazione.
Devo dire di essere partita con molte remore personali in proposito: da un lato vi era la mia scarsa dimestichezza con la “modalità video”, dall’altro la forte incertezza che caratterizza questo periodo, in cui non si conoscono ancora le eventuali disposizioni da adottare per lo svolgimento delle visite turistiche nella tanto attesa fase 2. Mi auguro che siano rese note nei prossimi giorni perché prima di avviare nuovi progetti riguardanti la mia professione sarebbe importante sapere quello che ci attende nei prossimi mesi. In effetti, al momento, è stata solamente annunciata la riapertura dei musei, delle mostre e delle biblioteche per il 18 maggio, ma faccio fatica a trovare notizie sulle attività culturali: saranno permesse le visite guidate nei musei se saranno rispettate le prescrizioni come l’uso di mascherine e il distanziamento? E se non ammesse nei luoghi al chiuso saranno almeno consentite all’aperto? Penso ad esempio agli itinerari di trekking urbano, pur con un ristretto numero di partecipanti.
Immagino che ci sarà chi penserà: “che differenza fa se non ci sono turisti”?
Ebbene, chi lavora nel turismo ne è pienamente consapevole, tanto che una delle parole d’ordine del nostro settore per l’anno 2020 sarà turismo di prossimità, che significa lavorare con una clientela in buona parte proveniente da luoghi nelle vicinanze. Nessuno si aspetta grandi numeri, ma abbiamo bisogno almeno di ricevere istruzioni precise. Vi è una certa differenza tra attendere il mese di giugno e provare ad organizzare eventi culturali per un pubblico locale e non lavorare affatto perché le visite guidate, in quanto “assembramento” per definizione, sono vietate per legge.
In attesa di capire che cosa potremo o non potremo fare mi sono cimentata nella mia prima diretta Facebook: avevo ricevuto molte richieste per questo particolare tipo di tour e pensando che proprio in questi giorni si sarebbe aperta la stagione delle gite in barchetto ecco la mia navigazione immaginaria sul fiume Arno, con la speranza di rivedere presto dal vivo gli amici Renaioli.
Questa presentazione è resa possibile dalle immagini di repertorio dei tour di Seeflorence, di Wikipedia (Sailko) e dalle foto di Lucia Tanchi. Grazie a Lucia Falsini per la bella immagine di copertina.
Guarda il video della diretta Facebook con il tour virtuale sul barchetto:
Come tutti sappiamo, i decreti ministeriali adottati per il contenimento del contagio da Covid-19 (DPCM 8 e 9 marzo) hanno vietato ogni forma di assembramento di persone, con la conseguente la chiusura di teatri, cinema, musei e aree archeologiche. Tutte le attività culturali e gli eventi in programma sono pertanto stati annullati o sospesi, mettendo in serie crisi il comparto del turismo e migliaia di altri lavoratori impiegati nel settore dei beni culturali e dello spettacolo.
E i giornali? La loro attività rientra tra i servizi essenziali e in ogni caso le grandi testate nazionali godono ormai di una massiccia presenza sui social.
Il mondo dell’editoria italiana però, è composto anche da aziende di comunicazione più piccole e che operano a livello locale, come quella che cura la pubblicazione di Toscana Tascabile, la rivista mensile che da oltre 20 anni viene distribuita in tutte le edicole della regione e che si occupa di eventi come spettacoli (teatro, musica e arti di strada), mostre, incontri, visite guidate, sagre, rassegne enogastronomiche e di antiquariato, mercati.
La situazione attuale non permette al giornale di uscire: la redazione ha purtroppo dovuto rinunciare al numero di aprile e molto probabilmente dovrà fare lo stesso con il numero di maggio.
Ho intervistato il direttore di Toscana Tascabile, Gloria Chiarini, alla quale ho chiesto di raccontarmi qualcosa della sua vita e di come trascorre queste giornate di quarantena. Fiorentina, 67 anni, con una laurea in Storia dell’Arte e la certezza, fin da ragazza, che avrebbe scritto (“in quale forma e quale professione l’ho scoperto in seguito“). Gloria è una giornalista professionista dal 1985 e dirige il giornale dall’agosto del 2000.
In genere la sua vita si svolge tra gli incontri, le conferenze stampa e il lavoro in redazione, che include il dover leggere e schedare ogni giorno centinaia di mail che arrivano da vari uffici stampa, enti e amministrazioni. Tuttavia Gloria mi dice che uno degli aspetti che ama di più della sua professione è proprio quello di sapere le cose in anticipo ed essere sempre aggiornata su tutto. Le sue giornate sono lunghe e spesso non rientra a casa prima delle 21, ma mi confessa di essere molto fortunata perché suo marito è un bravissimo cuoco e le fa sempre trovare la cena pronta!
Quando non lavora Gloria ama occuparsi della casa, dei suoi gatti e tartarughe, ma la sua più grande passione resta legata al mondo dell’arte. In passato ha collaborato a complesse ricerche d’archivio e all’organizzazione di importanti eventi (ricordo che compare tra gli autori della mostra con relativo catalogo ‘Raffaello aFirenze. Dipinti e disegni dalle collezioni fiorentine‘, che si tenne a palazzo Pitti nei primi mesi del 1984 per la celebrazione del V centenario dalla nascita dell’artista, ndr) e oggi continua a coltivare il suo interesse andando a visitare le mostre, fotografare le opere e descriverle con post sui social.
Gloria è una donna sorridente, gentile e ottimista. Rivolgo anche a lei la domanda che pongo a tutte le persone che intervisto: Hai fiducia nel futuro? Cosacredi che succederà nei prossimimesi? Ho sempre fiducia nel futuro, nella vita, nelle leggi dell’Universo. Nell’immediato so che staremo ancora un pò in casa, poi usciremo mantenendo ancora dei limiti nella socialità, forse non ci potremo abbracciare e baciare (e questo mi mancherà) ma riprenderemo la nostra vita…E un bel giorno arriverà il vaccino!
Auguro davvero al direttore e i suoi colleghi di riprendere al più presto il lavoro alla redazione di Toscana Tascabile per tornare a informarci su tutto quello che si può fare nella nostra regione!
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Firenze è ricca di aneddoti e storie da raccontare: esistono diversi libri che conducono il lettore alla scoperta dei luoghi più caratteristici della città, veri e propri manuali sulle curiosità locali. Vediamone alcune che riguardano la Cattedrale di SantaMariadelFiore, sorta nella grande piazza accanto al Campanile di Giotto e di fronte al “bel San Giovanni“, così come Dante chiamava il Battistero.
Facciata del Duomo di Firenze Foto Patrizia Messeri
Il Duomo di Firenze si distingue certamente per la sua grandezza – ancora nel Quattrocento questa era la chiesa più grande del mondo – e per il colore, con il rivestimento a marmi bianchi, verdi e rosa che ricopre l’intera superficie dell’edificio. Degna di nota anche la durata della costruzione: se partiamo dalla fondazione – avvenuta, secondo la tradizione l’8 settembre 1296 e arriviamo all’inaugurazione della nuova facciata, nel 1887, parliamo di circa 600 anni di lavori! Eppure la decorazione non era terminata perché, ad esempio, mancavano ancora le grandi porte in bronzo: quella di sinistra e quella centrale vennero commissionate ad Augusto Passaglia (che le completò nel 1903), mentre quella di destra venne eseguita da Giuseppe Cassioli.
Foto GuardaFirenze
Proprio a lui si deve il primo singolare dettaglio, che si trova sul battente destro della porta, dove compare il volto di un uomo con un serpente stretto intorno al collo. Avete presente l’espressione “essere strozzato dai debiti“? E’ questa l’immagine che l’artista volle lasciare di sé, con il suo autoritratto scolpito sull’opera finita dopo anni di tormenti, sofferenze, critiche e ritardi che lo avevano ridotto in miseria.
L’angelo irriverente Foto La Firenze dei Fiorentini
Guardando invece la cornice di marmo intorno al portale, in cui sono raffigurati gli Angeli dell’Apocalisse, se ne trova uno… che fa il gesto dell’ombrello! O perlomeno la sua posa sembra davvero suggerire tale movenza, tanto che questa figura è conosciuta come “l’Angelo irriverente“. In molti però sostengono che si tratti di un equivoco, con l’angelo che allunga il braccio come a voler spingere la cornice.
Per scoprire le altre curiosità che riguardano questo edificio occorre girarci intorno.
Foto Wikipedia
Basta voltare l’angolo dietro al campanile per vederne il fianco destro: qui dovrete “aguzzare” la vista per notare un particolare che riguarda la sua costruzione. Osservate attentamente le finestre e contate. Sono 6, giusto? Ma guardate meglio…cosa c’è di strano? Esatto, non sono tutte uguali! Le prime 4 finestre sono leggermente più basse e più strette, mentre le ultime 2 hanno una cornice più larga e con una diversa decorazione. Inoltre, entrando all’interno del Duomo, ci si accorge che le prime due campate hanno solo una finestra ciascuna (cieca) e non 4 come all’esterno. Ricapitolando: nello stesso tratto della chiesa vediamo 4 finestre all’esterno e due al suo interno. Come è possibile?
Foto Wikipedia
Questa differenza è dovuta alle modifiche che nel Trecento vennero apportate al progetto originario di Arnolfo di Cambio: l’architetto morì in un anno imprecisato tra il 1303 e il 1310 e il cantiere fu chiuso per un lungo periodo. Soltanto nel 1356 si ripresero i lavori sotto la direzione di FrancescoTalenti che propose di ridurre il numero delle campate (che difatti sono solo 4 a pianta quadrata) e ricostruì la navata dall’interno senza demolire le preesistenti strutture arnolfiane all’esterno. Vi è inoltre un altro dettaglio curioso, che compare sulla parete esterna proprio accanto al cancello che chiude il tratto che separa il Duomo dal Campanile: si tratta di un rilievo di forma rettangolare che raffigura un’Annunciazione. Non sappiamo chi sia stato a scolpirla, ma sembra risalga all’anno 1310, come è scritto nell’iscrizione in latino che si trova al di sotto e la indica come sepolcro della Compagnia dei Laudesi, una confraternita che usava riunirsi per cantare le lodi alla Madonna in Orsanmichele.
Filippo Brunelleschi Foto GuardaFirenze
Procedendo verso la cupola, sul lato destro della piazza si vedono le “Statue dei Giganti“, ossia le grandi figure di Arnolfo di Cambio e Filippo Brunelleschi scolpite da Luigi Pampaloni negli anni Trenta dell’Ottocento per decorare la facciata del nuovissimo Palazzo dei Canonici. Poco più avanti, ecco un’altra curiosità: un disco bianco impresso sulla pavimentazione della piazza, che indica il punto preciso in cui cadde la palla di rame dorato posta sulla lanterna della Cupola. La palla, che era stata realizzata da Andrea del Verrocchio nel 1468, venne colpita da un fulmine nell’inverno del 1600, danneggiando sia la lanterna sia il tamburo sottostante e mandando in frantumi la vetrata con l’Annunciazione di Paolo Uccello, mai più sostituita. Oggi per fortuna è protetta dal parafulmine.
Continuando a camminare intorno alla grande abside, si passa accanto all’ingresso del Museo dell’Opera del Duomo (il luogo dove venne “fisicamente” scolpito il David di Michelangelo) e al palazzo che nel Cinquecento, prese il posto delle case dove ebbe sede la bottega di Donatello (oggi al piano terra si trova un ristorante), con una lapide e un ritratto posti nel 1866 dal Circolo Fiorentino degli Artisti.
Porta della Mandorla Foto Wikipedia
Siamo giunti sul fianco opposto della chiesa e vale la pena fermarsi a guardare entrambe le porte: la prima viene chiamata Porta della Mandorla, famosa per il rilievo nel timpano raffigurante l’Assunzione della Vergine, eseguito da Nanni di Banco intorno al 1414. La figura della Madonna è inserita all’interno di una forma che ricorda quella di una mandorla, uno tra i più antichi simboli cristiani, ma già usato nell’antichità come segno di rinascita e fecondità. Non a caso ai novelli sposi si regalano i confetti che al loro interno hanno la mandorla 🙂
Doccione a forma di testa di toro Foto Sailko
Se da qui alziamo lo sguardo verso la tribuna e le terrazze si intravedono i doccioni a forma di testa di animale usati per scaricare l’acqua piovana. In particolare vi è un aneddoto che riguarda il doccione con la testa di bue posto sopra la Porta della Mandorla: secondo la leggenda popolare, agli inizi del Quattrocento in una casa di via Ricasoli (che si trova quasi di fronte alla porta) abitava un sarto molto geloso della moglie. A quanto pare la donna era molto avvenente e aveva una tresca amorosa con il capomastro dell’Opera del Duomo: quando il sarto scoprì il tradimento denunciò entrambi al Tribunale Ecclesiastico e il capomastro per vendetta pose la testa del toro (con tanto di corna) rivolta verso le finestre dell’abitazione del sarto.
Porta di Balla, dettaglio della Leonessa Foto GuardaFirenze
La seconda porta invece viene chiamata Porta di Balla o dei Cornacchini (dal nome di una famiglia che abitava in Via del Cocomero – oggi via Ricasoli – posta proprio di fronte alla porta) decorata verso la fine del Trecento da belle tarsie in marmo e colonne tortili sorrette da un leone con un putto e una leonessa con i cuccioli: la curiosità legata a questa porta è riportata anche nelle Istorie Fiorentine di Giovanni Cavalcanti, dove si racconta la vicenda di un tizio chiamato Anselmo, che viveva vicino alle case dei Cornacchini. Egli si lamentava di avere un incubo ricorrente, in cui sognava di essere sbranato da un leone come quello della porta del Duomo, da dove passava ogni mattina per recarsi al lavoro. Così un giorno decise di farsi coraggio e avvicinarsi alla statua: per esorcizzare la paura decise di mettere la mano in bocca al leone, ma per sua sfortuna vi trovò dentro uno scorpione che punse il povero Anselmo e lo fece morire il giorno dopo!
La bocca del leone dove mise la mano Anselmo Foto operaduomo.firenze.it
Siamo così tornati di fronte alla facciata del Duomo e concludo questa serie di aneddoti (ne ho scelti una parte ma ce ne sarebbero stati altri!) con la leggenda legata al miracolo di San Zanobi. Accanto al Battistero si vede infatti una colonna, che fu posta in ricordo di un vecchio olmo, rifiorito in pieno inverno al passaggio delle spoglie del santo, che veniva traslato dalla chiesa di San Lorenzo all’antica cattedrale di Santa Reparata (oggi appunto Santa Maria del Fiore). Da quel giorno il popolo iniziò a venerare l’albero finché esso non si seccò nuovamente e venne tagliato: al suo posto venne innalzata una colonna con una croce e una decorazione che raffigura un piccolo olmo.
Foto GuardaFirenze
Riferimenti bibliografici:
Luciano Artusi – Le curiosità di Firenze, Firenze, Newtown Compton, 2017.
Il 2020 ci ha riservato una Pasqua a porte chiuse. Oltre a non poter aprire la porta di casa nostra a parenti e amici, resterà chiusa anche quella della rimessa di via il Prato, il luogo in cui è custodito il “Brindellone“, il grande carro allegorico usato per il tradizionale rito in piazza del Duomo. Lo scoppio del carro rappresenta la tradizione della Pasqua fiorentina e per ovvie ragioni è stato annullato: non accadeva dal secondo dopoguerra.
Foto cittadifirenzeufficiale
Partiamo innanzitutto dalla domanda che molto probabilmente si staranno ponendo i non fiorentini: perché la mattina di Pasqua diamo fuoco a un carro ricoperto di mortaretti e fuochi d’artificio?
L’operazione avviene grazie al cosiddetto “volodellacolombina”, un razzo a forma di bianca colomba che viene acceso e lanciato a tutta velocità verso il carro posto davanti al portone centrale del Duomo, lasciato aperto per l’occasione. La colombina corre su un filo metallico lungo circa 150 metri, deve colpire il carro per innescare il meccanismo che da inizio allo spettacolo pirotecnico e possibilmente tornare indietro. Lo scoppio del carro è da secoli la “rumorosa” e pittoresca cerimonia che caratterizza la Pasqua fiorentina e che simbolicamente rappresenta la distribuzione del fuocobenedetto a tutta la città. Si tratta di una consuetudine molto antica e che risale al tempo della prima crociata, quando l’eroico cavaliere Pazzino de’Pazzi, partecipò all’assedio di Gerusalemme e il 15 luglio 1099 fu il primo a scalare, a mani nude, le mura della città santa. Come ricompensa per il suo coraggio, il duca Goffredo di Buglione, comandante della spedizione, gli donò trepietre del Santo Sepolcro, che egli riportò con sé a Firenze nel 1101. Al suo arrivo egli fu accolto con grandi onori e le pietre venerate come reliquie (dal 1785 sono gelosamente custodite nella nicchia di una cappella della chiesa di Santi Apostoli).
Dopo la liberazione di Gerusalemme, il giorno del Sabato Santo, i cavalieri crociati si riunirono in preghiera e donarono il fuoco benedetto a tutti come simbolo di purificazione. A Firenze questa usanza venne ripresa accendendo il fuoco santo in Duomo con le pietre provenienti da Gerusalemme, poi dei giovani con delle torce lo portavano in processione in tutte le case. Con il tempo si decise di usare un carro per trasportare il braciere per le vie della città, da cui i fedeli potevano accendere ceri e candele e forse intorno alla fine del Trecento, si iniziò a fare uso dei fuochi d’artificio (facendo scoppiare il carro) per spargere idealmente il fuoco benedetto su tutta la popolazione. Ad occuparsi della manutenzione e dell’addobbo del carro fu sempre la famiglia Pazzi, che ogni anno provvedeva alla sua ricostruzione per i danni causati dalle esplosioni, almeno fino al 1478, anno della famosa congiura a danno dei Medici. Questa tradizione fu mantenuta anche durante il loro esilio e quando nel 1494 tornarono a Firenze, decisero di costruire un carro nuovo, più grande e resistente, che è praticamente quello usato ancora oggi.
Il Brindellone visto da vicino. Si riconosce in blu l’arme dei Pazzi. Foto Wikipedia
Ma perché al carro è stato dato il nome di “Brindellone“?
Questa parola viene in genere usata per descrivere una persona alta e trasandata ma il riferimento al carro sembra sia nato in occasione di un’altra festa fiorentina, che si teneva il 24 giugno in onore del patrono San Giovanni Battista. In questa giornata infatti un carro pieno di fieno partiva in processione dalla torre della Zecca con a bordo un figurante vestito solo di una pelle di animale. Non di rado l’individuo scelto per impersonare il santo saliva sul carro ubriaco e tutto traballante faceva il giro della città. I fiorentini iniziarono così a chiamare Brindellone questo personaggio e per analogia tutti i carri usati nei giorni di festa.
La cerimonia dello scoppio del carro dura in genere una ventina di minuti. Fuochi e petardi avvolgono il Brindellone in una nuvola di fumo e scintille, che in passato i contadini accorsi in città per assistere allo spettacolo consideravano di buon auspicio per il raccolto, se il volo della colombina si svolgeva senza intoppi.
Foto Visit Tuscany
Il carro viene accompagnato dal deposito di Via il Prato al Duomo dal corteo del calciostoricofiorentino, anche perché per tradizione in questa occasione si procede al sorteggio dei colori per le partite. L’amministrazione comunale ha già reso noto che anche questa manifestazione sarà rimandata all’autunno, ma il sorteggio si terrà comunque la mattina di Pasqua nel Salone dei Cinquecento e sarà trasmesso in diretta Facebook.
Riferimenti bibliografici:
Luciano Artusi – Anita Valentini Festivitàfiorentine, Firenze, Comune di Firenze, Assessorato alle Feste e Tradizioni, 2001.
Notizie sul sorteggio del calcio storico fiorentino:
Il Cenacolo di Fuligno si trova in Via Faenza all’interno dell’ex convento di Sant’Onofrio, fondato nel Trecento come ricovero per eremiti e poi destinato alle monache agostiniane. Nel 1419 il piccolo complesso con i suoi orti venne acquistato da Ginevra Bardi che lo fece completamente ristrutturare per accogliere le suore terziarie francescane di Foligno, una congregazione nata dalla Beata Angiolina di Marsciano e composta prevalentemente da giovani provenienti da nobili famiglie. I lavori furono completati in soli 10 anni e questo nuovo edificio venne chiamato il “Convento delle Contesse“, proprio per l’estrazione sociale di molte fanciulle, che desideravano dedicarsi a una vita di preghiera e povertà, pur senza rinunciare al contatto con il mondo esterno.
Chiostro del convento di Fuligno Foto Sailko
Dopo il Concilio di Trento anche alle suore terziarie venne imposta la clausura e il monastero rimase in funzione fino alle soppressioni napoleoniche. Nel 1803 fu convertito in collegio per l’educazione di ragazze povere e orfane e confermato da Leopoldo II di Lorena al suo rientro in Toscana. L’antico refettorio veniva praticamente usato come magazzino e quando nel 1843 fu casualmente scoperto l’affresco sulla sua parete di fondo il Granduca decise di comprarlo e farne un museo. Il Cenacolo fu la primissima sede del museo archeologico e in seguito ospitò la collezione Feroni. Dal 1966 venne usato come deposito per le opere d’arte danneggiate dall’alluvione e nel 2005 è stato sottoposto a restauro. I locali dell’ex convento sono attualmente sede del Centro servizi e formazione di Montedomini.
La chiesa di Sant’Onofrio fu sconsacrata in epoca napoleonica e oggi viene usata per eventi e spettacoli. A destra si vede la facciata del convento trasformato in Educatorio femminile dagli inizi dell’800.
Il refettorio del convento di Fuligno venne affrescato con l’UltimaCena da Pietro Perugino tra il 1493 e il 1496.
Il ritrovamento dell’opera aveva suscitato grande entusiasmo tra gli storici dell’epoca, che lo avevano inizialmente attribuito a Raffaello. Gli studi successivi hanno invece confermato il lavoro del maestro umbro, che in quegli anni aveva raggiunto l’apice della sua carriera: dopo l’esperienza alla Cappella Sistina, Perugino era tornato a Firenze – dove si era trasferito probabilmente già dalla fine degli anni ’60 del Quattrocento per svolgere il suo apprendistato nella bottega del Verrocchio – ma doveva pure recarsi spesso a Perugia e per far fronte alle numerose commissioni aveva messo su bottega in entrambe le città. Nella Firenze laurenziana, la delicata armonia della sua pittura, fatta di figure semplici e solenni che sembrano muoversi in un uno spazio senza luogo e senza tempo, venne accolta come ideale rappresentazione del pensiero neoplatonico, ma in seguito fu apprezzata anche da Girolamo Savonarola, che proprio in quella semplicità vedeva un’esaltazione della sua severa religiosità.
Ultima Cena di Pietro Perugino Foto Wikipedia
Nel cenacolo di Fuligno, Perugino si ispira sicuramente all’affresco terminato nel 1486 da Domenico Ghirlandaio nel convento di San Marco, pur senza rinunciare a quegli elementi tipici della tradizione pittorica umbra e del suo personale percorso artistico. In effetti le due composizioni sono molto simili, con gli apostoli posti in due file accanto a Gesù, seduti su una spalliera in legno finemente decorata: sul gradino si possono leggere i loro nomi, mentre Giuda è come di consueto girato di spalle e rivolge il proprio sguardo verso lo spettatore. La grande tavola è apparecchiata con una fine tovaglia bianca e sul pavimento appare una decorazione a riquadri geometrici in marmi bianchi e rosa che sembra essere stata ripresa da una delle tavolette con le Storie di San Bernardino a Perugia, a cui l’artista aveva lavorato con Pinturicchio e altri maestri locali circa 20 anni prima. Un motivo che si rifa alla tradizione fiorentina fin dai tempi di Beato Angelico è la decorazione che fa da cornice alla lunetta entro la quale è dipinta la scena, ma la vera novità consiste nella grande “apertura” realizzata sullo sfondo, dove in lontananza si intravede l’Orazione nell’orto dei Getsemani. Perugino non si accontenta di mostrare un giardino alle spalle di Cristo e degli apostoli, ma vi colloca un grande loggiato, con alte arcate e i pilastri decorati da eleganti grottesche, oltre il quale compare il caratteristico paesaggio umbro, fatto di esili alberi e dolci colline. Un tema, quello del portico, che peraltro era già comparso in molte altre opere dell’artista (pensate alla bella Pietà degli Uffizi), ma che qui diviene un punto focale centrale verso cui converge lo sguardo dello spettatore.
Perugino, Pietà (1483-93) FIrenze, Gallerie degli Uffizi Foto Wikipedia
Attualmente nella sala del cenacolo si possono ammirare anche gli affreschi di Biccidi Lorenzo (1430 ca.) provenienti da altri ambienti del convento, un Crocifisso ligneo di Benedetto da Maiano e l’Assunzione della Vergine di Valerio Marucelli, un tempo sull’altare maggiore della chiesa di Sant’Onofrio.
Orari
Il cenacolo di Fuligno è aperto soltanto nella giornata di martedì e la prima domenica del mese dalle 8.30 alle 13.30. Ingresso gratuito.
Il museo è attualmente chiuso in osservanza del DPCM 8 marzo 2020 e successive modifiche.
Questo cenacolo si trova nell’antico refettorio di San Salvatore in Ognissanti (anche se i fiorentini lo chiamano semplicemente Ognissanti) costruito a partire dal 1251 per l’ordine degli Umiliati, una congregazione religiosa di origine piemontese1, che raggiunse grande prestigio e ricchezza grazie alla lavorazione dei panni di lana2 (basti pensare che Giotto dipinse per loro la Maestà che oggi si trova agli Uffizi)
L’ordine venne soppresso nel 1571 e la chiesa e il convento passarono ai francescani provenienti dalla chiesa di San Salvatore al Monte che ordinarono importanti lavori di ristrutturazione, tra cui la costruzione dei due chiostri. La chiesa venne nuovamente consacrata nel 1582 e fu allora che assunse il nome sopra citato. L’ingresso al cenacolo si trova nel Chiostro Grande, decorato agli inizi del Seicento con un ciclo pittorico raffigurante le Storie di San Francesco di Jacopo Ligozzi e Giovanni da San Giovanni. Il complesso fu soppresso nel 1866 e dagli inizi del secolo scorso una parte di esso è occupata da una caserma dei carabinieri, di cui fanno parte gli ambienti intorno al ChiostroMinore, decorato nel 1602 con medaglioni con santi e beati francescani. Una curiosità: all’ingresso del chiostro si trova una lapide che ricorda l’attore Luigi del Buono (1751-1832), l’inventore della maschera di Stenterello.
Chiostro Grande di Ognissanti. I tre pilastri in pietra forte che si vedono a sinistra appartenevano alla chiesa medievale ristrutturata nel ‘500 dai francescani. Foto Sailko
Nel 1480 Domenico Ghirlandaio venne chiamato ad affrescare il refettorio, poco prima di partire per Roma nella “spedizione” alla Cappella Sistina, in cui avrebbe lavorato insieme a un gruppo di artisti fiorentini (tra i quali vi era Botticelli). L’UltimaCena venne finanziata dalla ricca famiglia Vespucci, di cui facevano parte il celebre navigatore Amerigo e la bella Simonetta amata da Giuliano de’Medici: Ghirlandaio aveva già lavorato qualche anno prima al loro altare di famiglia all’interno della chiesa, in cui aveva dipinto la Deposizione e la MadonnadellaMisericordia (tra le opere più antiche attribuite al pittore, eseguite intorno al 1472) e nello stesso periodo in cui era impegnato nel cenacolo, gli venne commissionato anche l’affresco con il San Girolamo nello studio, opposto a quello che, sempre i Vespucci, avevano ordinato a Botticelli.
Altare della Cappella Vespucci con gli affreschi del Ghirlandaio. Foto Sailko
Il Ghirlandaio può essere definito un “maestro di cenacoli” in quanto ne dipinse ben tre3.
prima di lavorare a quello di Ognissanti, infatti, era stato alla Badia di Passignano (1476) e al suo rientro da Roma, sarebbe stato chiamato dai padri domenicani di San Marco (1486). Facendo un confronto tra queste opere, si nota come per il cenacolo di Passignano egli si sia ispirato a quello realizzato da Andrea del Castagno in Santa Apollonia, anche se, rispetto al suo predecessore, la “scatola prospettica” in cui si svolge la scena risulta più compressa. A Ognissanti invece le pareti vengono abbattute e dietro agli apostoli appare un giardino, con la composizione che si adatta perfettamente alla forma della stanza stessa, inserita in due lunette separate da un peduccio.
Cenacolo della Badia a Passignano (1476) – Foto WikipediaCenacolo di Ognissanti (1480) Foto Wikipedia Cenacolo di San Marco (1486) Foto Wikipedia
I personaggi sono disposti accanto a Cristo (con Giuda come sempre seduto dalla parte opposta del tavolo), raffigurati mentre conversano ed interagiscono tra loro a coppie. Non si avverte alcuna tensione, le figure non mostrano alcun accento drammatico, ma un atteggiamento sereno rafforzato dai delicati accordi cromatici e l’attento studio della luce (le due finestre ai lati dello sfondo sono infatti vere e non solo dipinte). L’affresco è ricco di particolari, sia sulla tavola, sia nel giardino dipinto sullo sfondo. La tavola è apparecchiata e imbandita con stoviglie e pietanze come era nell’uso dell’epoca, impreziosita da una raffinata tovaglia bianca ricamata e con le frange. Le caraffe sono riempite con acqua e vino e gli apostoli mangiano pane, formaggio e prosciutto, ma si vedono anche delle ciliegie. La stessa cura per i dettagli naturalistici appare nei cespugli e negli alberi con agrumi, mele e datteri del giardino, in cui volano varie specie di uccelli: un’attenzione tipica della pittura fiamminga che l’artista aveva osservato nei primi dipinti arrivati a Firenze e forse frequentando la bottega del Verrocchio. In realtà tutti questi elementi sono simboli riferiti alla Passione e alla Resurrezione di Cristo: la palma a destra indica il martirio, il pavone è simbolo di immortalità, mentre i melograni, le rose rosse nel vaso, le ciliegie e i cardellini sono collegati alla Passione (per via del colore rosso).
Ultima cena, dettaglio
Nella sala è esposta anche la sinopia e due nicchie con affreschi seicenteschi di Giuseppe Romei (Sara al pozzo e Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia). Il portale d’ingresso e i due lavabi in pietra serena risalgono al 1480.
ORARI
Il Cenacolo di Ognissanti è aperto solo il sabato mattina dalle 9 alle 13 (chiuso tutti gli altri giorni della settimana, 1 gennaio e 25 dicembre). Ingresso libero.
Il museo è attualmente chiuso in osservanza del DPCM 8 marzo 2020.
Note:
1 L’ordine degli Umiliati era nato ad Alessandria agli inizi del Duecento e giunse a Firenze nel 1239. La loro prima sede fu la chiesa di San Donato in Polverosa (la chiesa di Novoli), poi la chiesa di Santa Lucia al Prato, per stabilirsi definitivamente in riva all’Arno al termine dei lavori del nuovo complesso alla fine del Duecento.
2 Il lavoro era parte integrante della vita della comunità e trovandosi praticamente di fronte all’Arno il complesso era un luogo ideale per la lavorazione della lana. Gli Umiliati fecero costruire la Pescaia di Santa Rosa e intorno al convento sorsero alcuni tiratoi e molte case artigiane.
3 In realtà sarebbero stati 4, ma la decorazione del cenacolo di San Donato in Polverosa, eseguita prima di quella a Ognissanti è andata perduta.
Oggi 6 aprile 2020 si celebrano i 500 anni esatti dalla morte di Raffaello Sanzio.
Il MiBACT dedica l’intera giornata al ricordo del grande artista con una serie di iniziative digitali che potete seguire in diretta.
La grande mostra alle Scuderie del Quirinale a Roma, inaugurata pochi giorni prima del DPCM del 8 marzo, è ancora chiusa al pubblico, ma i loro canali social propongono diversi video che permettono di passeggiare virtualmente tra le sale.
Vi ricordo inoltre che stasera su Rai Storia (canale 54 DT) sarà trasmesso il documentario “La Roma di Raffaello” che ripercorre gli anni più importanti della sua carriera.
Lascio a questa giornata anche il mio piccolissimo contributo, riportando qui il commento postato sul mio profilo personale di Facebook. Con un velo di amarezza, che chi fa il mio lavoro (e credo non solo il mio) non possa non avere oggi.
Così ci siamo, il “gran giorno” è arrivato, questo anniversario tanto atteso, che avrebbe dovuto essere l’evento culturale dell’anno. Mica capita spesso di celebrare i 500 anni di qualcosa, figuriamoci se si tratta di uno dei più grandi artisti italiani del Rinascimento. Eppure ci sono state altre ricorrenze negli ultimi mesi, solo che questo lo sentivo “più mio” degli altri. Ho sempre amato e difeso Raffaello (si sa che aveva antagonisti temibili), ho sempre adorato quella sua arte fatta di armonia e delicatezza, la sua continua ricerca di perfezione. Era ambizioso il ragazzo, che sapeva interpretare alla perfezione il ruolo di cortigiano modello, ma non per questo era meno deciso ad arrivare dove voleva. E ci riuscì pienamente, consapevole del suo talento, che seppe sfruttare fino in fondo. Una vita felice la sua (come dice il famoso libro di Forcellino letto in un pomeriggio) e soprattutto normale: soldi, successo, donne. Passioni reali e carnali, rapporti veri e non solo mentali, spinti fino all’eccesso e poi risultati fatali (sennò non si muore di sifilide a 37 anni). E noi oggi lo chiamiamo divino e tale resterà la sua arte nei secoli: un’arte solo apparentemente più semplice, forse più libera dai tormenti michelangioleschi o dai ragionamenti di Leonardo, ma non per questo più “facile”. E dove io continuerò a vedere la parabola di un giovane artista di provincia che arrivato ad avere tutto, tutto perse nell’umano desiderio.
I Romani chiamavano così la stanza in cui si consumava la cena, generalmente in uno degli ambienti più grandi della casa perché era il pasto principale della giornata, durante il quale si riuniva tutta la famiglia con eventuali ospiti. Nella tradizione cristiana il cenacolo divenne il luogo di Gerusalemme in cui Gesù consumò la sua Ultima Cena con gli Apostoli istituendo il sacramento dell’Eucarestia. In senso figurato, dunque, questa parola evoca una riunione di persone, unite da un sentimento di condivisione e partecipazione: ecco perché nei refettori dei conventi, ossia il luogo in cui monaci e suore mangiavano, si trova sempre affrescata questa immagine. La pittura dei cenacoli fu molto praticata a Firenze e molti di questi sono stati trasformati in museo.
Questo Cenacolo faceva parte dell’antico complesso monastico di Santa Apollonia, uno tra i più grandi di Firenze, fondato nel 1339 da un certo Piero di Ser Mino1. Nel 1440 giunsero in questo monastero le suore dell’abbazia di Santa Maria a Mantignano e la badessa Cecilia Donati ordinò una serie di lavori di ampliamento della struttura: vennero così costruiti il cosiddetto Chiostro della Badessa e una grande sala rettangolare con soffitto a cassettoni da impiegare come refettorio.
Andrea del Castagno, Ultima Cena 1447
Tra il 1445 e il 1450 Andrea del Castagno venne incaricato di affrescare interamente la parete d’ingresso del salone, in cui dipinse l’Ultima Cena e altre tre scene raffiguranti la Resurrezione, la Crocifissione e la Deposizione.
Questi affreschi, che si trovano nella parte superiore separati dalle finestre, appaiono molto rovinati (ma ancora leggibili) e nel 1953 furono staccati per motivi di conservazione: vennero così ritrovate le sinopie, che qualche anno dopo furono attaccate sulla parete opposta.
Ultima cena, dettaglio
Le informazioni su Andrea del Castagno, specialmente per quello che riguarda la sua formazione e i primi anni di attività, sono ancora molto scarse: tuttavia si ritiene che fosse arrivato a Firenze verso la fine degli anni Trenta del Quattrocento come assistente di Domenico Veneziano per lavorare al famoso ciclo pittorico della chiesa di San’Egidio (andato completamente distrutto) uno tra i più importanti del primo Rinascimento, al quale avevano collaborato altri grandi maestri come Piero della Francesca e Alessio Baldovinetti. Prima di eseguire la decorazione di Sant’Apollonia il pittore aveva soggiornato per alcuni anni a Venezia, ma poi era tornato in città dove la sua presenza è documentata almeno fin dal 14442.
Ultima Cena, dettaglio
L’affresco con l’Ultima Cena è sicuramente una delle opere più significative dell’artista e il primo cenacolo del Rinascimento a Firenze3. Andrea del Castagno pose Gesù e i suoi apostoli in una sorta di “scatola prospettica”, come se la scena si svolgesse in un edificio a cui è stata tolta la parete di fronte per permettere allo spettatore di vedere cosa accade al suo interno. L’ambiente è ricco di colori e dettagli raffinati: guardate i pannelli sullo sfondo, il fregio, l’elegante drappo sui sedili e le sfingi ai lati della tavola, su cui è stesa una lunga e bianchissima tovaglia. Sono evidenti i richiami all’antico e la sua abilità nell’uso della prospettiva: dal punto di vista iconografico egli scelse la tradizionale composizione in cui si vedono gli apostoli ai lati del Cristo, con Giuda separato dagli altri e seduto su un sgabello. Tutti conversano in modo naturale ma la loro posa composta e solenne rivela una certa influenza di Masaccio sul pittore. Il tratto maggiormente distintivo di Andrea del Castagno però resta l’uso assolutamente nuovo del colore: un espressionismo inedito per il suo tempo, caratterizzato da tinte forti che conferiscono un vigore quasi scultoreo alle figure, paragonabile solo a certe opere di Donatello.
Andrea del Castagno, Cristo in pietà tra due angeli
Nella sala sono conservate anche altre opere di Andrea del Castagno, dipinte sempre intorno alla metà del Quattrocento: la lunetta con il Cristo in Pietà tra angeli (proveniente dal Chiostro della Badessa dell’antico monastero) una Crocifissione e la sinopia della Visione di San Girolamo tra Santa Paola e Sant’Eustachio. Si possono inoltre vedere i pochi resti rimasti del grande ciclo di affreschi di Sant’Egidio con le Storie della Vergine.
Andrea del Castagno, Crocifissione
Nella piccola sala attigua al refettorio sono esposte altre opere provenienti dal monastero: una Crocefissione di Paolo Schiavo e due tavole di Neri di Bicci con l’Incoronazione della Vergine e la Madonna col Bambino e santi, tra cui compare proprio Sant’Apollonia, raffigurata con un paio di tenaglie che le stringono un dente, allusione al suo martirio.
Neri di Bicci, Madonna in trono col Bambino e santi
Sant’Apollonia era un convento di clausura e pertanto rimase inaccessibile fino alle soppressioni ottocentesche (difatti nemmeno Giorgio Vasari fece menzione del cenacolo). Nel 1864 venne requisito per scopi militari e una parte dell’edificio venne demolita per l’apertura di Via XXVII aprile. Molti degli ambienti rimasti vennero trasformati in uffici e oggi la struttura è suddivisa tra Università di Firenze e Ministero della Difesa: la chiesa del complesso (la cui facciata è su via San Gallo) è stata sconsacrata e oggi è una sala conferenze, mentre il grande Chiostro della Badessa, su due livelli, ospita la mensa universitaria. L’ingresso al museo del cenacolo si trova in via XXVII Aprile.
FOTO DAL MIO ARCHIVIO PERSONALE
Orari
Da lunedì a domenica dalle 8.15 alle 13.50. Chiuso 1°, 3°, 5° sabato e domenica di ogni mese, 1° gennaio e 25 dicembre. Ingresso libero
Il museo è attualmente chiuso in osservanza del DPCM 8 marzo 2020.
Note:
1 L’atto di fondazione del monastero, conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze, lo indica come abitante nel popolo di San Simone.
2 Nel 1444 gli viene commissionato il cartone per una vetrata di Santa Maria del Fiore con la Deposizione.
3 La scena con l’Ultima Cena viene datata al 1447.
In queste lunghe giornate passate a casa, vi sarà sicuramente capitato di pensare alla vostra vita prima della quarantena: gli impegni di lavoro, qualche commissione veloce, la pausa pranzo con colleghi e amici. Frammenti del nostro quotidiano che ci manca e che vorremmo tornare a vivere presto. Anche le mie giornate da guida turistica a Firenze erano scandite da ritmi e consuetudini precise. Quando parliamo di mangiare, credo ognuno abbia il suo “posticino in centro”, quello dove andare praticamente tutti i giorni e che diventa la tua seconda casa. Il mio si trova in via della Condotta 38/R, a due passi da Piazza della Signoria e si chiama il Cernacchino , dove lavorano Giuliana e Beatrice.
Ho raccolto anche il loro pensiero sulla crisi che ci coinvolge, i timori riguardo al lungo periodo di inattività e le idee che potrebbero risultare utili per ripartire.
Ecco Giuliana Spinelli, fiorentina doc, 55 anni (“e felice di averli“). Ha aperto questo locale nel 2009 e prepara panini e piatti tipici della tradizione fiorentina e toscana, ma anche ricette fuori dai soliti schemi, un po’ come è lei. Da piccola sognava di essere una principessa, ma a 15 anni ha iniziato la scuola alberghiera e ha deciso che il suo regno sarebbe stata la cucina. Prima di aprire il Cernacchino con sua sorella Francesca, aveva gestito insieme a lei un ristorante per 25 anni. Giuliana si definisce una donna “decisa ma volubile” (in effetti dipende dai giorni ndr) e la sua più grande passione dopo il lavoro è la moda (confermo anche questo, guai se mi presento con il trucco senza primer agli occhi 😂). In realtà sotto quella facciata a volte un po’ ruvida, c’è una grande professionista, che non solo ama cucinare per i suoi clienti, ma adora impastare dolci e si diverte ad accostare sapori in modo nuovo e creativo.
Lei invece è Beatrice Pellegrini, per tutti i Cernacchini semplicemente “la Bea”, che 4 anni fa è diventata il braccio destro di Giuliana. Nata a Firenze, ha 52 anni, vissuti con la consapevolezza della sua età e l’entusiasmo di una trentenne. È arrivata al Cernacchino quasi per caso, ma spinta dal forte desiderio di cambiare vita: prima trascorreva il suo tempo in un ufficio, sempre davanti al computer o al telefono, mentre adesso può svolgere un lavoro “di testa e di cuore”, che le permette di stare al pubblico e divertirsi: per Beatrice è stato un pò come rinascere, inoltre affiancare Giuliana in cucina le permette di imparare molto e rappresenta uno stimolo continuo per lei (“io le sto accanto e andiamo a mille“).
Un rapporto di collaborazione intenso, quindi, basato su una forte complicità e intesa reciproca, da cui è nata pure una bella amicizia, che va ben oltre il normale orario di lavoro: non di rado trovi Giuliana e Beatrice insieme dopo la chiusura, in giro per negozi o a prendere il caffè.
Beatrice mi dice che Giuliana “spesso dal nulla crea delizie” ed è un po’ questo lo spirito che le accompagna nella preparazione di tante pietanze diverse: dalle zuppe ai contorni, dalla classica porchetta al lampredotto fusion, una versione alternativa con ginger e lemon grass presentata nel programma TV di Simone Rugiati a marzo dello scorso anno. Già perché le nostre Cernacchie sono famose e sempre nel 2019 sono state inserite nella lista dei10 migliori panini da mangiare a Firenze su Gambero Rosso. Personalmente resto fedele al must del Cernacchino: il paninoscodella con le polpettine in salsa di pomodoro di loro invenzione e che non trovate in nessun altro locale della città (da assaggiare assolutamente, ne vanno matti anche i più piccoli!)
Beatrice e Giuliana mostrano la copertina del mensile Bell’Italia dove compare un articolo che parla di loro (N. 401 Settembre 2019)
Chiedo a Giuliana se riesce a spiegarmi il segreto di questo successo, ma mi risponde che resta un mistero anche per lei (ride), ma una dote che sente sicuramente di avere è il saper usare la fantasia e possedere una grossa “memoria del gusto“, una sorta di archivio personale dei sapori, che le permette di dosare in modo ottimale gli ingredienti e ottenere combinazioni mai ripetitive.
Purtroppo il 9 marzo anche il Cernacchino ha dovuto chiudere per rispettare le disposizioni del DPCM e dopo quasi un mese, il ritorno alla normalità appare ancora lontano. L’orientamento generale sembra sia quello di riaprire le attività commerciali in modo graduale quando sarà terminata la fase più acuta della pandemia, ma è difficile azzardare previsioni perché stiamo lottando contro un nemico invisibile, che ci ha messo di fronte alla sofferenza e ci ha imposto tante rinunce, alle quali, onestamente, non eravamo più abituati. Beatrice è convinta che dovremo convivere ancora a lungo con mascherine, guanti e disinfettanti, ma soprattutto con una forte sensazione di insicurezza, che andrà a modificare tante delle nostre abitudini anche dopo la fine dell’emergenza. Giuliana ovviamente si preoccupa dell’aspetto economico di questa situazione: al momento c’è tanta paura e quindi il centro storico di Firenze è deserto, ma ci sono molti esercizi che non riusciranno a resistere a lungo in queste condizioni e saranno costretti a chiudere. Le istituzioni si stanno muovendo per dare un sostegno, ma il contesto appare così imprevedibile che “se non hai le spalle coperte non vai avanti” e magari al momento della riapertura bisognerà ripensare ai normali orari di apertura dei negozi.
In effetti servirà molta pazienza, ma occorre restare lucidi e mettere da parte tutta l’energia possibile per essere pronte a ripartire. Giuliana e Beatrice hanno l’esperienza e le risorse necessarie per farcela e tutti i Cernacchini non vedono l’ora di vederle tornare in azione. Forza ragazze.
Guarda la puntata di Food Advisor del 26marzo 2019:
L’emergenza sanitaria scatenata dalla pandemia da Covid-19 ha avuto un impatto devastante sul settore del turismo, che è stato uno dei primi ad essere colpito dal crollo delle prenotazioni e molto probabilmente sarà uno degli ultimi a rialzarsi dalla crisi. Ho raccolto il pensiero di Silvia Brunori, titolare del B&B La Locandiera in Via della Scala a Firenze dal 2008, professionista seria e innamorata del suo lavoro e giovane donna dal carattere solare e divertente.
In una situazione normale, sarei andata a intervistare Silvia nel suo B&B e lei come sempre, mi avrebbe offerto un caffè in cucina. Ma in tempo di corona virus, ci si deve adattare a metodi, per così dire, un po’ più tradizionali.
Ecco alcune delle domande che ho posto a Silvia:
Sei nata a Firenze?Nata a Firenze da babbo di Santa Croce e mamma lucana, quindi sono per metà fiorentina e per metà direi orgogliosamente “terrona”…un gran bel mix, no?
Posso chiederti quanti anni hai?Farò 45 anni il 6 aprile (come Raffaello! ndr) ma in realtà me ne sento molti meno addosso. Mia nipote mi dice sempre che noi andiamo molto d’accordo perché sono rimasta bambina come lei. Una volta una persona mi ha detto che soffro della sindrome di Peter Pan, ma io non mi sono offesa perché spesso i bambini dimostrano di essere più forti degli adulti. Loro sanno affrontare le situazioni con il sorriso, la sincerità, la semplicità e la leggerezza che spesso perdiamo con il passare degli anni.
Descrivi te stessa con tre aggettivi.Passionale. Testarda. Generosa
Domando a Silvia se ha un hobby o degli interessi particolari, ma lei ammette che fino a poco tempo fa il lavoro non le lasciava molto tempo libero: le piace viaggiare e cucinare e mi racconta di essere stata una grande appassionata di immersioni subacquee, che ha dovuto abbandonare dopo l’apertura del B&B. Due cose a cui invece non rinuncia sono la musica rock e l’amore per l’Australia, per cui ha “una passione sfrenata e incontrollabile”.
A questo punto le chiedo di raccontarmi meglio la sua vita alla Locandiera
*la struttura è temporaneamente chiusa per i provvedimenti di contenimento dell’epidemia da Covid-19*
Una giornata-tipo di Silvia inizia al mattino presto: alle 6 suona la sveglia e alle 7 è già operativa nel suo B&B. Non avendo a disposizione una sala, prepara lei la colazione ai suoi ospiti e tutte le mattine la porta nelle loro camere. Poi attende che i suoi clienti siano usciti per passare a ritirare i vassoi e iniziare a fare le pulizie. Ogni giorno si devono rimettere a posto le camere occupate e preparare le camere dei nuovi arrivi e poi c’è da curare tutta la parte del front office: l’accoglienza, rispondere al telefono e alle email. Silvia si occupa personalmente sia del marketing sia del booking della sua struttura, che consiste nella gestione delle prenotazioni e la costruzione delle tariffe di vendita. Un lavoro nel lavoro, come sa bene chiunque abbia posizionato la propria attività in rete, dove la concorrenza è agguerrita.
Solo quando tutti gli ospiti sono arrivati e partiti anche lei può tornare a casa sua. Per chi fa questo lavoro non esiste un orario preciso: talvolta si può essere liberi alle 4 del pomeriggio così come alle 9 di sera, tutti i giorni della settimana. Non ci sono domeniche libere e giorni festivi e l’unico modo per andare qualche giorno in vacanza è chiudere le prenotazioni.
I drammatici eventi delle ultime settimane ci hanno imposto di fermarci e in questo momento la vita a cui eravamo abituati sembra lontana. Forse occorrerà ripensare ai modelli di sviluppo e sostenibilità del turismo italiano, ma prima di tutto servirà il coraggio e la determinazione dei suoi imprenditori per risollevare un comparto fondamentale della nostra economia.
Silvia cosa credi che succederà nei prossimi mesi? Hai fiducia nel futuro?Più che nel futuro ho fiducia nelle mie capacità, perché saranno quelle che mi aiuteranno a ripartire, insieme a tutto quello che ho imparato in questi anni.I prossimi mesi saranno lunghi e difficili..dovremo ricominciare da zero e le attività come la mia avranno bisogno di molto sostegno da parte del governo, perché solo così potremo risollevarci.Noi italiani dovremmo essere più solidali e aiutarci gli uni con gli altri. Quando tutto questo sarà finito dovremmo imparare a essere il primo motore che fa funzionare l’economia del nostro paese. Tutti non fanno altro che dire quanto sia bella l’Italia, fanno foto e video che mandano all’estero, ma dobbiamo essere noi i primi a credere nella bellezza del nostro paese. Viaggiamo di più in Italia e compriamo italiano, tanto per cominciare.
Come molti di noi, Silvia è rimasta a casa e attende la fine dell’emergenza. Le manca la sua Locandiera e rivuole indietro la sua vita e le sue abitudini, ma ha ben presente che da ora in poi la parola d’ordine sarà rinnovamento. E come nel suo quadro preferito, l’Albero della Vita di Gustav Klimt, la lunga esperienza e nuova consapevolezza la aiuteranno a farsi trovare pronta.
Esiste davvero la bellezza ideale? Se è vero che oggi si fatica a rispondere a questa domanda, nel Quattrocento gli artisti non si ponevano i nostri stessi dubbi e inventarono un nuovo codice di perfezione formale. In particolare, nella Firenze di Lorenzo il Magnifico, vi fu un pittore che per lungo tempo si dedicò alla ricerca del bello assoluto: ovviamente sto parlando di Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi, più noto come Sandro Botticelli, le cui opere divennero un modello di grazia e armonia. Ecco una bellissima tempera su tavola conservata presso le Gallerie degli Uffizi, con una storia ancora tutta da scoprire.
Sandro Botticelli, Madonna del Magnificat (1481-83) Firenze, Gallerie degli Uffizi Ph.credits Wikipedia
Il dipinto di Sandro Botticelli da tutti conosciuto come Madonna del Magnificat, fu molto probabilmente eseguito tra il 1481 e il 1483: il nome è riferito alla parola ben riconoscibile sulla pagina destra del libro posto di fronte alla Vergine. Non sappiamo esattamente per chi venne realizzata, ma la forma arrotondata tipica delle opere di devozione privata, suggerisce la committenza da parte di una famiglia o forse di un’istituzione cittadina. Le prime notizie certe risalgono al 1784, quando il quadro fu donato alla Galleria degli Uffizi da Ottavio Magherini1.
In essa è raffigurata la Madonna in trono con il Bambino seduto sulle sue ginocchia: sulla sinistra vediamo un gruppo di 3 angeli che le porgono un libro e un calamaio e altri 2 che sorreggono una corona dorata sopra la sua testa.
Madonna del Magnificat – dettaglio
La Vergine tiene il pennino nella mano destra e si accinge a scrivere sulle pagine dove spuntano le parole tratte dal Vangelo di Luca “Magnificat anima mea Dominum” (La mia anima magnifica il Signore), da lei pronunciate durante la Visitazione2. Sulla pagina sinistra invece si riconoscono alcuni versi del Benedictus3, ossia il cantico di ringraziamento a Dio di Zaccaria. Il Bambino poggia delicatamente una manina sul braccio di Maria, come per guidarla nella scrittura e l’altra sulla melagrana, simbolo della sua futura passione; il suo sguardo è rivolto all’insù verso la mamma e richiama la natura celeste del Cristo.
Madonna del Magnificat – dettaglio
Gli angeli che li circondano mostrano la stessa intesa tra gesti e sguardi: se osservate con attenzione la composizione, vi accorgerete che essa si adatta perfettamente alla forma circolare della cornice in pietra serena posta dietro ai personaggi e dalla quale si intravede un paesaggio d’ispirazione fiamminga4.
Pur compresse ai bordi, le figure si muovono con la compostezza e la grazia tipica del mondo classico e indossano raffinate vesti, che rendono particolarmente elegante la figura della Madonna, che porta una sciarpa annodata intorno al collo e un leggero velo che le copre i lunghi capelli biondi. Veli sottili che aleggiano anche intorno alla corona, impreziositi dalle decorazioni in oro, le stesse che ritroviamo negli abiti e nei capelli degli angeli.
Madonna del Magnificat – dettaglio
Secondo la tradizione, molto contestata dagli storici, questo dipinto sarebbe il ritratto della famiglia di Piero de’ Medici5, detto il Gottoso.
La Madonna avrebbe il volto di Lucrezia Tornabuoni, il giovane con il calamaio sarebbe Lorenzo il Magnifico e quello accanto a lui vestito di giallo il fratello Giuliano. L’angelo vestito di rosso dietro a loro sarebbe Maria6 mentre i due angeli reggi-corona dovrebbero raffigurare Bianca7 e Lucrezia detta Nannina8. Il Bambino sarebbe invece il ritratto della piccola Lucrezia, figlia di Lorenzo il Magnifico. Purtroppo non esistono fonti che possano documentare questa tesi, che almeno storicamente risulta improbabile per vari motivi: negli anni Ottanta del Quattrocento, infatti, l’opera avrebbe potuto essere commissionata solo da Lorenzo o dalla sorella Lucrezia (forse come ricordo della propria infanzia?) visto che Giuliano era morto nella Congiura dei Pazzi, Bianca era in esilio con il marito Guglielmo e Maria era morta da qualche anno. La stessa Lucrezia figlia di Lorenzo, che si diceva ritratta neonata nella figura di Gesù Bambino all’epoca avrebbe già avuto una decina d’anni. Dunque i conti non tornano, ma vi lascio con quella che è un’affascinante suggestione: l’unico evento che si lega a questi anni è la morte proprio di Lucrezia Tornabuoni, avvenuta alla fine del mese di marzo del 1482. E non ci sono dubbi su quanto Lorenzo il Magnifico fosse legato a sua madre.
Note:
1 6 novembre 1784, Ingresso di una Madonna con Bambino e angeli, tondo del XV secolo, offerto da Ottavio Magherini, da Archivio Storico della Galleria degli Uffizi, Filza 18, n. 002
2 Maria avrebbe pronunciato questa frase durante il suo incontro con Santa Elisabetta, come ringraziamento per essere stata la prescelta da Dio.
3 Il componimento si trova nel primo capitolo del Vangelo secondo Luca.
4 Il modello di riferimento prevedeva un fiume o un ruscello e l’immancabile castello in cima alla collina.
5 Sicuramente non fu lui a commissionare l’opera a Botticelli perchè all’epoca era già morto da più di 10 anni.
6 Maria de’ Medici era una figlia illegittima di Piero il Gottoso ma venne cresciuta da Lucrezia Tornabuoni insieme agli altri suoi figli. Le notizie su di lei sono davvero scarse, ma sappiamo che si sposò con Leonetto de’ Rossi e fu la madre del cardinale Luigi de’ Rossi, fedelissimo di papa Leone X. Morì molto giovane, all’età di 29 anni.
7 Bianca si sposò con Guglielmo de’ Pazzi e nonostante la sua estraneità alla congiura scelse di seguire il marito in esilio.
8 Nannina era il soprannone con cui era chiamata la bisnonna Piccarda Bueri. Lucrezia si sposò con Bernardo Rucellai.
In passato i fiorentini festeggiavano l’inizio del nuovo anno il 25 marzo, festa mariana dell’Annunciazione. Questo giorno era dunque una festa civile e religiosa insieme, che dal 2000 è stata nuovamente inserita nell’elenco delle celebrazioni ufficiali del Comune di Firenze.
Il calendario fiorentino rimase in vigore dal VII secolo al 1750, anno in cui venne abolito con decreto di Francesco Stefano di Lorena e prevedeva che l’anno civile avesse inizio il 25 marzo anzichè il 1 gennaio, con la differenza di 2 mesi e 25 giorni rispetto all’uso moderno. Il capodanno fiorentino veniva così a coincidere con la festa religiosa dell’Annunziata (secondo il conto ab incarnazione). La scelta sembra fosse dovuta alla particolare devozione da sempre riservata alla Madonna e per questo si svolgeva una processione verso la basilica della SS. Annunziata, in cui era venerato un affresco dell’Annunciazione che secondo la leggenda era stato dipinto da un pittore, fatta eccezione per il volto della Vergine, che si diceva fosse stato dipinto dagli angeli. Nella piazza si teneva una fiera che serviva innanzitutto come punto di ristoro per i numerosi pellegrini con cibi e bevande, ma anche candele, fiori e oggetti ex-voto da offrire all’Annunziata.
Affresco dell’Annunciazione (ignoto toscano XIV sec.) Basilica della SS. Annunziata, Firenze Ph. credits La SS. Annunziata
A parte la differenza del giorno del capodanno, il calendario fiorentino era praticamente identico a quello usato nel resto d’Europa e si trattava quindi di un calendario gregoriano.
Questo sistema era stato introdotto da papa Gregorio XIII nel 1582, dopo decenni di studi e discussioni. Anni prima Leone X aveva già fatto presente l’esigenza di creare un calendario universale, per uniformare la scansione del tempo ed eliminare quelli in uso secondo le tradizioni locali e nel 1516 aveva scritto a tutti i capi di stato per sollecitare la questione. Gregorio XIII nominò una speciale commissione composta da astronomi e teologi (di cui facevano parte Luigi Lilio e Ignazio Danti) per preparare la riforma.
Perché servivano gli astronomi per riformare il calendario?
Il sistema allora in uso era il cosiddetto calendario giuliano, entrato in vigore nel 46 A.C. (ai tempi di Giulio Cesare), su consiglio dell’astronomo greco Sosigene ed era un calendario di tipo solare, basato sul valore medio dell’anno solare, della durata di 365 giorni e 1/4. La problematicità relativa al calcolo dell’anno solare era data proprio dalla presenza dei decimali, in quanto la rivoluzione del sole intorno alla Terra non è sempre uguale, ma subisce delle minime variazioni molto difficili da quantificare o conteggiare in un sistema fisso. Tuttavia oggi la durata dell’anno solare viene stimata in 365,2422 giorni.
Il calendario giuliano prevedeva perciò degli anni bisestili (1 ogni 4) per recuperare la differenza con l’anno solare, che in questo modo si riduceva a soli 11 minuti e 14 secondi, cosa che per essere stata inventata nel I secolo A.C. era di una precisione incredibile. Inizialmente questo metodo venne considerato molto valido anche dalla Chiesa, che durante il Consiglio di Nicea del 325, se ne servì per fissare le regole per il calcolo della Pasqua.
Con il passare dei secoli però, il divario tra calendario giuliano e anno solare andò ad aumentare: in pratica si era perso un giorno ogni 128 anni e nel 1582 la differenza accumulata era di ben 10 giorni! Questo in effetti creava delle grosse difficoltà per la stesura delle tavole pasquali.
Bolla papale Inter gravissimas, 1582 con la quale viene istituito il calendario gregoriano Ph. credits Wikipedia
Il calendario gregoriano dovette quindi modificare la durata media dell’anno: attraverso un sistema molto più preciso, la differenza con l’anno solare venne ridotta a soli 26 secondi e ciò consente di perdere un giorno ogni 3323 anni anziché 128. Per recuperare il ritardo accumulato nel 1582 si cancellarono 10 giorni, passando direttamente dal 4 al 15 ottobre.
Riferimenti bibliografici:
Luciano Artusi – Anita Valentini, Festività fiorentine, Comune di Firenze Assessorato alle Feste e Tradizioni, Firenze, 2001
In questi giorni così difficili e complicati sono tanti i musei di Firenze che hanno aderito alla campagna di prevenzione del contagio da Covid-19 #iorestoacasa promossa dal MIBACT, offrendo percorsi di visita virtuale e attività alternative dai propri siti e canali social. L’obiettivo è quello di tenere compagnia alle tante persone costrette a restare in casa, continuando la propria missione di diffusione della cultura.
Ecco alcune delle iniziative che potete trovare on line:
Le Gallerie degli Uffizi. Si ispira alla celebre opera di Boccaccio la campagna social lanciata dai musei appartenenti alle Gallerie degli Uffizi chiamata #UffiziDecameron: ogni giorno sui profili Instagram, Facebook e Twitter vengono pubblicate foto, video e racconti sulle opere che si trovano nella Galleria delle Statue e delle Pitture, nei musei di Palazzo Pitti e nel Giardino di Boboli. Inoltre troverete #lamiasala, una serie di mini-tour vituali in cui gli assistenti museali illustrano gli angoli più suggestivi e le opere delle Gallerie.
Musei civici fiorentini. E’ partita da qualche giorno la campagna dell’associazione MUS.E #museichiusimuseipaerti: sui loro profili Facebook e Instagram troverete tanti post con passatempi utili e divertenti (anche per i più piccoli) e video che vi permetteranno di visitare virtualmente i musei civici fiorentini.
Galleria dell’Accademia. Anche la Galleria dell’Accademia ha pensato ai più piccoli lanciando sui propri canali social l’iniziativa #giocacondavidino: una guida d’eccezione che vi accompagnerà alla scoperta delle opere e della #iconografiadeisanti. Potrete inoltre interagire con la sezione didattica del museo, scaricando gratuitamente dal sito delle schede gioco da far colorare ai vostri bambini.
Musei del Bargello. I musei del gruppo (Museo Nazionale del Bargello, Cappelle Medicee, Museo di Palazzo Davanzati, Casa Martelli e Orsanmichele) aderiscono alla campagna #iorestoacasa sul proprio profilo Instagram: seguite i loro post contrassegnati da #FromBargellowithLove e #BargelloPeople.
Museo Galileo. Per gli appassionati di scienza segnalo i video e le attività proposte sul sito del Museo Galileo dove troverete una interessante serie di video didattici, in cui gli esperti di discipline diverse, spiegano la storia della scienza e l’uso degli antichi strumenti. Nella sezione “Fai da te… anche a casa” sono presenti dei file PDF con le istruzioni per costruire da soli oggetti e strumenti come la bussola e la banderuola.
Il Grande museo del Duomo. Vi ricordo infine che anche nel sito del Grande Museo del Duomo è possibile accedere a dei tour virtuali della Cupola di Brunelleschi e del Campanile di Giotto.
E ovviamente ci sono anche tanti articoli su GuardaFirenze da consultare 🙂
Alcuni giorni fa sono passata a trovare il maestro pellettiere Simone Taddei nella sua storica bottega in via Santa Margherita, a due passi dalla Casa di Dante. Conosco Simone ormai da qualche anno e sono stata da lui in più occasioni, perché ritengo che sia una tappa obbligata per tutti quei visitatori che desiderano scoprire il mondo dell’autentico artigianato fiorentino.
Questa volta però ci sono andata in veste di blogger insieme alla mia “fotografa di esperienze” Patrizia Messeri.
Ho chiesto al maestro di parlarmi del suo lavoro, che consiste nella produzione secondo antiche tecniche di raffinati oggetti in cuoio interamente realizzati a mano: scatole di varie forme e misure, cornici, cofanetti o portagioie, portamonete, portasigari e articoli da scrivania coordinati.
Simone ha iniziato a raccontarmi di come, tra tante difficoltà, stia portando avanti la lunga attività di famiglia, iniziata nel 1937 dal suo bisnonno, calzolaio specializzato in scarpe da ballo per uomo. Lui ha cominciato da ragazzo, affiancando il babbo e il nonno, che gli hanno trasmesso sia la passione per questo mestiere, sia l’esperienza necessaria per creare prodotti di eccellenza, che richiedono una lunga e complessa lavorazione, con un minimo di 32 passaggi e tempi che vanno dai 20 ai 60 giorni. Dunque ogni pezzo che esce da questo negozio è assolutamente unico e apprezzato proprio perché curato nei minimi particolari.
Mi faccio descrivere meglio le fasi di lavorazione, che vi riassumo brevemente, perché sarebbe una cosa molto lunga da spiegare in dettaglio, pur tenendo sempre presente che questo lavoro è fatto di tanti mestieri messi insieme e prevede una serie di competenze e conoscenze che si acquisiscono solo dopo molto tempo.
Ciascun articolo nasce partendo da una forma di legno che prima di tutto deve essere rivestita con strisce di spalla a cuoio – lo stesso materiale usato per la suola delle scarpe – un tipo di pellame spesso e duro, che prima di essere applicato va tenuto in bagno per almeno un paio di giorni (altrimenti sarebbe impossibile da lavorare). Le strisce di cuoio vengono tagliate a misura e devono aderire perfettamente al modello e siccome saranno incollate solo ai bordi, Simone ricorre a degli speciali “elastici” neri per fissarle alla struttura.
Dopo una serie di altri passaggi l’oggetto è pronto per il secondo rivestimento, per il quale viene usata una speciale concia in vitello naturale, più morbida al tatto e dal caratteristico effetto velluto. Simone mi spiega che la spalla di cuoio viene usata per la struttura dell’oggetto proprio perché è una materia più grezza e resistente, ma non sarebbe assolutamente adatta per la fase successiva, cioè quella della colorazione.
Anche la tintura viene effettuata da lui in bottega (a dire il vero aveva provato a rivolgersi a una ditta specializzata, ma si sono arresi prima di partire!) usando i colori di base, da cui, con gli opportuni trattamenti, riesce a ottenere tonalità di rosso che vanno dal bordeaux al mogano, fino alla testa di moro, il blu e il verde. Il colore che viene passato sul rivestimento è opaco, per cui occorre brunire la superficie a caldo con appositi ferri per renderlo brillante e lucido. La stessa procedura viene ripetuta per stendere la cera protettiva che conferisce l’aspetto finale all’oggetto. Eppure il lavoro non è ancora terminato perché “l’anima” di legno è ancora al suo interno e dunque va tagliato con uno speciale trincetto per rimuovere la forma e rifinirlo dentro.
Ecco quindi come una semplice forma di legno si trasforma in un articolo pronto per la vetrina: questo è uno dei miei preferiti, “l’ostrica” portagioie color cuoio.
Simone Taddei vi aspetta nella sua bottega nel cuore del centro storico di Firenze, dove continua a tramandare la nobile arte del cuoio.
A proposito se lo cercate in rete non troverete né un sito internet, né profili social. Bisogna proprio che ci andiate di persona 😉
Ci sono storie di grandi donne vissute nel passato rimaste avvolte nel mistero: in questo articolo vi racconto quella di Matilde di Canossa, figura femminile tra le più affascinanti del Medioevo italiano. Una donna forte e combattiva, che si ritrovò a governare da sola i vasti possedimenti di famiglia, che comprendevano Lombardia, Emilia Romagna e Toscana e fu convinta sostenitrice dei papi nella lotta per le investiture.
Matilde di Canossa in trono tra il monaco Donizone e un vassallo Miniatura dalla Vita Mathildis Biblioteca Apostolica Vaticana Ph. credits Wikipedia
Vi chiederete come mai abbia scelto proprio lei: una feudataria a Firenze.
Che importanza può mai avere avuto in una città che affermò il suo prestigio come libero comune? In effetti i comuni furono gli antagonisti del sistema feudale e questa nuova forma di governo iniziò a svilupparsi e diffondersi solo pochi anni dopo la morte di Matilde. Firenze fu la prima città in Toscana (e una delle prime in Italia) a darsi questo nuovo ordinamento.
Eppure i fiorentini amarono molto la contessa e le tributarono grandi onori. Un amore pienamente ricambiato dalla loro coraggiosa signora, che aveva fatto costruire una nuova cerchia di mura (le cosiddette mura matildine del 1078) e concesso numerosi privilegi e autonomia alla “più fedele delle sue città” (cit. Franco Cardini). A quel tempo, infatti, Firenze era già in piena espansione economica, poteva riscuotere tasse nel contado e aveva il proprio sistema di misurazione (il cosiddetto Piede di Liutprando), pronta a rivendicare il ruolo di primato nella regione. Inoltre risulta che diverse famiglie locali fossero coinvolte a vario titolo nell’esercizio dell’autorità e che il palazzo marchionale fosse stato volutamente costruito al di fuori delle mura. Insomma si potrebbe dire che la stessa Matilde avesse incoraggiato la città ad auto-governarsi, cosa che puntualmente accadde nel 1138 con la nomina dei primi consoli, ossia i rappresentanti delle nuove magistrature cittadine.
Direi quindi che valga la pena di conoscere meglio questo personaggio vissuto quasi mille anni fa, partendo dalla sua “qualifica”, che la vede indistintamente indicata come contessa, marchesa, duchessa, vicaria d’Italia e vice regina d’Italia: in realtà Matilde fu tutte queste messe insieme.
Suo padre si chiamava Bonifacio di Canossa ed era il discendente di una potente famiglia feudale di origine longobarda, conte di Mantova e marchese di Toscana: dunque Matilde ereditava sia il titolo di contessa che di marchesa o margravia (dal termine germanico markgraf che era l’equivalente di marchese), ma siccome in epoca longobarda la Toscana era stata un ducato, le si attribuiva anche il titolo di duchessa. Sua madre Beatrice di Lorena, invece, era imparentata con la più alta nobiltà imperiale tedesca.
Beatrice di Lorena, madre di Matilde Miniatura dalla Vita Mathildis Biblioteca Apostolica Vaticana Ph. credits Wikipedia
Sono molto poche le informazioni sull’infanzia di Matilde, ma sappiamo che il padre venne ucciso nel 1052 quando lei aveva solo 6 anni e l’anno successivo morirono anche il fratello e la sorella maggiore, per cui la bambina rimase con la madre, che nel 1054 si risposò con Goffredo IV duca di Lotaringia, detto Il Barbuto, fratello di papa Stefano IX e coraggioso antagonista dell’imperatore germanico Enrico III.
Questo matrimonio rendeva il casato dei Canossa uno dei più potenti d’Europa e il patrigno di Matilde pensò bene di consolidare la sua posizione facendo sposare la ragazza con suo figlio Goffredo, detto Il Gobbo, celebrando le nozze nel 1069, pochi giorni prima della sua morte. Purtroppo non fu un matrimonio felice: Matilde visse con il marito in Lotaringia per un paio di anni, ebbe una bambina che morì alcuni giorni dopo la sua nascita e venne accusata dalla famiglia di Goffredo di aver portato il malocchio a corte. Nel 1070 la madre, rimasta nuovamente vedova, era rientrata in Italia e non appena le fu possibile, Matilde tornò a vivere a con lei. La loro presenza è particolarmente documentata in Toscana, dove risulta che le due donne abbiano presieduto a numerosi placiti, ossia le sedute pubbliche dei tribunali.
L’abate Ugo e Matilde intercedono per Enrico IV Miniatura dalla Vita Mathildis Biblioteca Apostolica Vaticana Ph. credits Wikipedia
Nel frattempo la lotta per le investiture, ossia lo scontro tra papa e imperatore per la nomina dei vescovi, si era fatta sempre più dura, soprattutto dopo l’elezione di Ildebrando di Soana, eletto con il nome di Gregorio VII, che nel 1075, attraverso il famoso Dictatus Papae aveva dichiarato la supremazia del papato rispetto all’impero. Matilde era legata all’imperatore da vincoli feudali ma aveva già manifestato la sua propensione a sostenere il papa e nel 1077 fu protagonista di un fatto che viene ricordato come l’umiliazione di Canossa. Dopo la bolla papale infatti il nuovo imperatore Enrico IV aveva deposto Gregorio VII, che come risposta lo aveva scomunicato. Il sovrano era quindi stato costretto a scendere in Italia per chiedere il suo perdono e si era recato presso il castello di Matilde a Canossa dove il pontefice si era rifugiato e qui, vestito di un semplice saio, aveva atteso tre giorni e tre notti al freddo prima di essere ricevuto, sembra proprio su intercessione di Matilde.
Intanto la contessa aveva perso l’amata madre Beatrice (morta a Pisa il 18 aprile 1076), pochi mesi dopo il marito Goffredo, che non aveva esitato a infamarne la reputazione, mettendo in giro voci di una sua presunta relazione sessuale con papa Gregorio VII.
Matilde adesso era sola e aveva fatto capire da che parte stava.
Tomba di Beatrice nel camposanto di Pisa. La donna venne sepolta in un antico sarcofago del II secolo Foto Sailko
Quando nel 1079 decise di donare tutti i suoi beni alla Chiesa, la vendetta di Enrico IV non si fece attendere. L’imperatore depose nuovamente il pontefice, che nuovamente scomunicò l’imperatore, finché non si arrivò allo scontro armato nei pressi di Mantova, dove le truppe imperiali sconfissero l’esercito di Matilde e Gregorio VII. L’imperatore era deciso ad arrivare fino a Roma e all’annuncio del suo passaggio tutte le città toscane si ribellarono. Tutte tranne Firenze, che nel 1082 venne messa sotto assedio dalle truppe imperiali, ma anche grazie alle poderose mura fatte costruire da Matilde riuscì a respingere l’attacco. Roma invece venne conquistata l’anno successivo costringendo Gregorio VII alla fuga, ma la contessa non si dette per vinta e sconfisse l’esercito di Enrico nella famosa battaglia di Sorbara, nei pressi di Modena.
Il conflitto continuò anche negli anni successivi, che videro Matilde sempre impegnata a sostenere la corrente riformatrice della Chiesa, appoggiando l’elezione di pontefici ostili a Enrico IV. Nel 1089 la contessa pensò che fosse giunto anche il momento di risposarsi e scelse il giovanissimo duca Guelfo V di Baviera, che all’epoca aveva 16 anni mentre lei ne aveva 42. Si trattava ovviamente di un matrimonio politico per rafforzare la sua rete di alleanze contro Enrico, ma la sua scelta fece comunque scalpore, per la grande differenza di età e gli aneddoti riportati dai cronisti dell’epoca. Nella Chronica Boemorum, di Cosma di Praga, ad esempio, si racconta che il giovane duca era stato accolto con grandi festeggiamenti, ma per due notti aveva rifiutato di giacere accanto a Matilde e così lei la terza notte si era presentata nuda su una tavola dicendogli “tutto è davanti a te e non v’è luogo dove si possa celare maleficio”. Ma il giovane era rimasto sconcertato e allora lei lo aveva cacciato prendendolo a ceffoni e male parole. Il matrimonio sarebbe stato annullato alcuni anni dopo.
Tomba di Matilde di Canossa nella Basilica di San Pietro Ph. credits Tgtourism
Con la morte di Enrico IV nel 1106 anche i rapporti con la casa imperiale si fecero più distesi e fu proprio il figlio Enrico V a conferire a Matilde il titolo di Vicaria Imperiale e Viceregina d’Italia. La contessa morì il 24 luglio 1115 a Bondeno di Roncone, un piccolo paese in provincia di Reggio Emilia. Nel Seicento i suoi resti furono traslati nella basilica di San Pietro a Roma per volere di papa Urbano VIII e la sua tomba scolpita da Gian Lorenzo Bernini.
La biografia “ufficiale” di Matilde di Canossa è la Vita Mathildis scritta dal monaco benedettino Donizone, fonte imprescindibile per le notizie sulla sua vita. Eppure sul suo conto sono state diffuse talmente tante storie che l’hanno resa una figura quasi leggendaria: gli ambienti ecclesiastici ne hanno sempre esaltato la profonda fede e lealtà verso la Chiesa, mentre altri l’hanno dipinta come donna passionale e superstiziosa, dedita al culto delle reliquie (cosa peraltro abbastanza comune durante il Medioevo).
Alla morte di Matilde, non essendoci un erede legittimo, i suoi territori vennero dispersi. Tuttavia la contessa aveva adottato Guido Guerra II, della dinastia dei conti Guidi, che assunse il titolo di Margravio di Toscana dal 1115 al 1124. Fu lui a fondare il castello di Vinci nel 1120.
Riferimenti bibliografici
Marcello Vannucci, Storia di Firenze, Firenze, Newton Compton editori, 1992
Franco Cardini, Firenze. La città delle torri, dalle origini al 1333, Milano, Fenice 2000, 1995
Certamente ognuno di voi conoscerà l’espressione “dare la caparra” e il suo significato. Ma forse non tutti sanno che questo modo di dire nasce a Firenze nel Quattrocento e ha per protagonista un avveduto fabbro al servizio delle più ricche famiglie della città.
Palazzo Strozzi Ph. credits Wikipedia
A poca distanza dalla centralissima Piazza della Repubblica si può ammirare l’elegante Palazzo Strozzi, residenza di una delle più potenti famiglie fiorentine del passato.
Per la sua opposizione a Cosimo il Vecchio de’ Medici, Filippo Strozzi fu esiliato nel 1434 e poté rientrare a Firenze solo nel 1466. Da allora egli trascorse altri 16 anni per “far posto” al suo palazzo, che egli intendeva costruire come “il più grande e bel palazzo” della città. Così, dopo aver acquistato terreni e immobili nell’area dove sarebbe sorto l’edificio, nel 1489 incaricò Benedetto da Maiano, uno dei migliori architetti dell’epoca, di dare inizio ai lavori. In realtà è molto probabile che l’anziano maestro non abbia fatto altro che fornire un modello e che il cantiere sia stato diretto prima da Giuliano da Sangallo e poi da Simone Pollaiolo, detto il Cronaca. Filippo Strozzi non vide mai il suo magnifico palazzo terminato perché morì nel 1491, mentre i figli iniziarono ad abitarci nel 1504, a costruzione non ancora ultimata. I problemi economici della famiglia e la loro opposizione a Cosimo I de’ Medici rallentarono i lavori che vennero finiti solo nel 1538 da Baccio d’Agnolo, lasciando peraltro una parte della facciata e del cornicione incompiuti.
Gli anelli per cavalli del Caparra
Per gli arredi esterni in ferro battuto ci si rivolse a Niccolò Grosso detto il Caparra, un abile artigiano fiorentino dell’epoca, ricordato persino nelle Vite di Giorgio Vasari per la sua bravura.
Egli però era altrettanto noto per una sua particolare abitudine, ossia quella di non iniziare mai un lavoro senza prima ricevere un acconto.
Pare che anche Lorenzo il Magnifico fosse un suo cliente e che sia stato proprio lui a dargli questo soprannome. Il fabbro realizzò le torciere, i porta fiaccola e gli anelli per cavalli, decorati con animali fantastici e le mezze lune simbolo della famiglia Strozzi e le belle lanterne a forma di tempio poste ai lati del palazzo. Gli spuntoni visibili sulle estremità ricordano dei mazzi di cipolle, ai quali forse il Caparra si ispirò per la presenza del mercato nella vicina piazza, dove appunto si vendevano, cipolle, cocomeri e altri ortaggi.
Al centro di Piazza SS. Annunziata si trova il monumento equestre in bronzo del Granduca Ferdinando I de’ Medici, a cui è legato il curioso aneddoto delle api scolpite su un cartiglio del basamento.
Monumento equestre di Ferdinando I Ph. credits Wikipedia
La statua è un’opera tarda del Giambologna, che si avvalse della collaborazione dell’allievo Pietro Tacca e venne fusa con il bronzo dei cannoni delle navi turche battute durante le campagne militari dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano. Nel sottopancia del cavallo vi è infatti un’iscrizione che ne ricorda le imprese con la frase “De’ metalli rapiti al fero Trace“, mentre lo stesso Ferdinando si mostra con la croce simbolo dell’ordine appesa al collo.
Ma la particolarità di questo monumento sta nel suo basamento, in cui si vede uno sciame di api con al centro la regina e le operaie disposte tutte intorno in cerchi concentrici: in alto si legge la scritta “Maiestate tantum“, che significa “soltanto per sua Maestà”. Questa immagine divenne il simbolo araldico di Ferdinando, in cui ovviamente egli era l’ape regina e le operaie i suoi sudditi. Vi si poteva leggere una fine allegoria dell’ordine precostituito dal regime mediceo, in cui ciascuno aveva il suo compito: l’ordine e il benessere del popolo da parte del sovrano e la piena obbedienza e collaborazione verso il sovrano da parte del suo popolo.
Le api di Ferdinando Foto Sailko
Ma quante sono le api di Ferdinando? Non è semplice dare una risposta e difatti la loro posizione rende difficile contarle una per una senza tenere il segno con le dita. Nasce da qui la leggenda per cui chi ci riesce sarà baciato dalla Fortuna.
In passato questo gioco veniva usato dai genitori per far smettere i bambini di fare i capricci, promettendo loro che avrebbero avuto ciò che desideravano solo se riuscivano a indovinare il numero delle api. Beh, a dire il vero ci potete provare ancora oggi con i vostri figli…l’importante è non toccare le api con le mani, sennò non vale!
A proposito, in tutto le api dovrebbero essere 91 ..!
Il Museo di Santa Maria Novella, nato agli inizi del secolo scorso su iniziativa del Comune di Firenze, ospita gli ambienti del convento costruito nel Trecento accanto alla basilica e attualmente consente di visitarne i chiostri, la sala capitolare, il refettorio e il dormitorio. Il trasferimento della caserma della Scuola Marescialli e Brigadieri dei Carabinieri, che dal 1920 occupava i locali affacciati su Piazza della Stazione e Via Santa Caterina, ha permesso di riunire gli spazi dell’antico complesso in un unico e affascinante percorso. E’ possibile accedere al museo da Piazza Stazione (lo stesso ingresso dell’Ufficio Informazioni Turistiche), oppure dalla porta che si trova lungo la navata sinistra della chiesa.
Il Chiostro dei Morti Foto Patrizia Messeri
Personalmente vi suggerisco il primo, sia perché, in genere, non si trova fila alla biglietteria, sia per il suggestivo scorcio offerto dal primo Chiostro, detto Chiostro dei Morti, il più antico del complesso, posto sotto al livello del transetto.
Per secoli venne usato come cimitero e dopo la disastrosa alluvione del 1333 fu ampiamente ristrutturato da Fra Jacopo Talenti. In seguito vennero decorate le cappelle di alcune importanti famiglie fiorentine dell’epoca: gli affreschi sono ancora visibili (anche se non tutti ben conservati), tra cui quelli della Cappella dell’Annunciazione di Andrea Orcagna. Questa cappella era stata costruita per Bice Trinciavelli, vedova di Filippo di Pagno Strozzi, che nel suo testamento aveva lasciato una curiosa disposizione: offrire il pranzo ai frati il 25 marzo di ogni anno, giorno in cui a Firenze si festeggiava il capodanno fiorentino. Oggi restano solo le scene della Natività e della Crocifissione, mentre una terza parete su cui si trovava proprio l’affresco dell’Annunciazione, fu demolita agli inizi del Novecento per le pessime condizioni dovute all’umidità. Il Chiostro dei Morti era peraltro molto più grande di come lo vediamo oggi: una parte delle strutture venne abbattuta a metà Ottocento per far posto alla piazza della nuova stazione ferroviaria, che ancora non si chiamava Santa Maria Novella, ma Stazione Maria Antonia, in onore della moglie del Granduca Leopoldo II di Lorena.
Il Chiostro Verde Foto Patrizia Messeri
Dal Chiostro dei Morti si passa al cosiddetto Chiostro Verde, costruito a metà del Trecento lungo il fianco sinistro della basilica da Fra Jacopo Talenti e che deve il suo nome al colore verde degli affreschi dipinti su tre dei quattro lati (sul quarto compaiono delle pitture più antiche risalenti al XIV secolo).
Tra questi vi erano le Storie della Genesi e le Storie di Noè, eseguite da Paolo Uccello, originale artista del Primo Rinascimento, di cui era nota, anche tra i contemporanei, la passione quasi ossessiva per le costruzioni prospettiche e che lavorò a questo ciclo con i suoi collaboratori in un lungo arco di tempo che va dagli inizi degli anni Venti del Quattrocento al 1447. La particolare tecnica impiegata dal pittore indusse il frate domenicano Vincenzo Borghigiani a definire dipinte “a sugo d’erbe e terra verde” queste otto lunette composte da due episodi sovrapposti.
Paolo Uccello La Creazione e il Peccato originale (1420-25) Foto Patrizia Messeri
Paolo Uccello iniziò la decorazione con la Creazione e il Peccato originale (1420-25) in cui si distinguono la Creazione degli animali e la Creazione di Adamo nella lunetta superiore e la Creazione di Eva e il Peccato Originale nel riquadro sottostante, con la figura del serpente con il volto di donna molto simile a quello dipinto da Masolino alla Cappella Brancacci. Sono invece attribuite alla bottega del maestro le scene centrali con la Cacciata dal Paradiso Terrestre e il Lavoro dei Progenitori (lunetta) e Caino e Abele (riquadro) e l’Uccisione di Caino (lunetta) e l’Arca di Noè (riquadro). Egli poi completò il ciclo con le Storie di Noè (1447), considerate uno dei suoi massimi capolavori, composte dalla scena del Diluvio nella lunetta e dal Sacrificio con ebbrezza di Noè nel riquadro. Il carattere quasi astratto e metafisico e le ardite vedute prospettiche rendono queste pitture alquanto singolari e senza paragoni nell’ambiente artistico fiorentino del tempo. Gli affreschi vennero gravemente danneggiati dall’alluvione del 1966 e dopo un primo intervento di recupero realizzato negli anni ’80, l’Opificio delle Pietre Dure ha condotto una nuova serie di lavori di restauro, terminati nel 2016 con l’esposizione delle lunette in una delle sale del Refettorio.
Paolo Uccello Il Diluvio e Sacrificio con ebbrezza di Noè (1447) Foto Patrizia MesseriIl Diluvio (dettaglio affresco) Foto SailkoIl Diluvio (dettaglio affresco) Foto SailkoUccisione di Caino e l’Arca di Noè (bottega di Paolo Uccelo) Foto Patrizia MesseriLa Cacciata dal Paradiso Terrestre con il Lavoro dei Progenitori e Caino e Abele (bottega di Paolo Uccello) Foto Patrizia Messeri
La maestosa sala capitolare che si affaccia sul Chiostro Verde nel 1540 venne assegnata al seguito di Eleonora di Toledo e da allora viene detta Cappellone degli Spagnoli.
La decorazione interna fu realizzata tra il 1365 e il 1367 grazie alla consistente eredità di Mico Guidalotti, esponente del governo del Duca di Atene, morto nel 1355 e sepolto di fronte all’altare. Il priore Zanobi Guascone affidò l’incarico al pittore Andrea di Bonaiuto, secondo un programma iconografico elaborato da Jacopo Passavanti che rappresenta la celebrazione dell’ordine domenicano e del suo ruolo contro l’eresia.
L’ingresso al Cappellone degli Spagnoli nel Chiostro Verde Foto Patrizia Messeri
Sulla parete sinistra compare il Trionfo di San Tommaso d’Aquino, seduto in trono e circondato dalle virtù teologali e cardinali. Accanto a lui sono seduti, in ordine, Giobbe, David, Paolo, Luca e Marco (nel gruppo a sinistra) e Matteo, Giovanni, Mosè, Isaia e Salomone (nel gruppo a destra). Ai suoi piedi invece si trovano i grandi eretici sconfitti: Sabello (rappresentato con una cassetta in mano), Averroè (che negava l’immortalità dell’anima) e Ario (capo degli ariani, che sosteneva la natura umana del Cristo). Nel registro inferiore si vedono 14 figure femminili, personificazioni delle scienze e delle arti liberali con un suo illustre rappresentante: ad esempio la Filosofia è insieme ad Aristotele, la sacra Scrittura insieme a San Girolamo, l’Aritmetica insieme a Pitagora, la Retorica insieme a Cicerone e così via.
Andrea di Bonaiuto Trionfo di San Tommaso d’Aquino (1365-67) Foto Patrizia Messeri
Sulla parte destra è dipinta l’Allegoria della Chiesa militante e trionfante e la Via Veritas, che raffigura la missione, l’opera e il trionfo dell’ordine domenicano. L’affresco va letto in basso da sinistra, in cui si trovano una serie di autorità sedute in trono davanti a un modello del Duomo di Firenze, che curiosamente si presenta già finito con una grande cupola (il concorso sarebbe stato bandito solo 50 anni dopo). Al centro si vede il papa Benedetto XI con a sinistra un gruppo di personaggi che rappresentano i vari ordini monastici e a destra l’imperatore Carlo IV e il re di Francia Filippo il Bello con un altro gruppo di personaggi laici famosi: tra questi vi sarebbero i ritratti di Dante, Boccaccio, Petrarca con le rispettive donne amate (Beatrice, Fiammetta e Laura) Cimabue e Arnolfo di Cambio.
Andrea di Bonaiuto Allegoria della Chiesa militante e trionfante (1365-67) Foto Patrizia Messeri
In basso a destra compaiono i tre maggiori santi domenicani: San Tommaso d’Aquino che predica agli increduli, ossi i non cristiani, San Pietro Martire che disputa con gli eretici e San Domenico che conduce i cani contro i lupi, simbolo dell’eresia. L’iconografia dei cani bianchi e neri (che riprendono i colori della veste dei frati) era nata da una visione avuta dalla madre di San Domenico, fondatore dell’ordine, la Beata Giovanna d’Aza, che aveva visto se stessa dare alla luce un piccolo cane che infiammava tutto il mondo. Dal suo sogno era nato un gioco di parole in latino: i domenicani che prendevano il nome da Dominicus, che traeva origine dal termine Dominus (cioè Signore) diventavano i Domini canes, i cani del Signore. In effetti il programma dei frati predicatori consisteva nella “carità della verità”, ossia la preghiera unita all’azione apostolica, in cui la contemplazione e lo studio della Parola erano elementi fondamentali per la Predicazione. La figura di San Domenico compare di nuovo nel gruppo di figure soprastante, in cui egli mostra la via del Paradiso: accanto a lui un monaco impartisce la confessione ai fedeli, mentre sula destra si vedono 4 figure allegoriche che rappresentano il Piacere (la donna con la viola), la Superbia (l’uomo con il falco), la Lussuria (la donna con la scimmia) e l’Avarizia (l’uomo vestito di verde). Il Paradiso è raffigurato in alto a sinistra con San Pietro in prima fila che accoglie i fedeli insieme a tutti gli altri santi. A coronamento della scena un Cristo in Gloria con forme di stile ancora bizantineggiante.
I Domini canes (dettaglio affresco)
Passiamo infine nel Chiostro Grande, il più ampio della città, costruito tra il 1340 e il 1360, su cui si affacciavano i dormitori, il refettorio e gli ex-appartamenti papali.
E’costituito da 56 campate a tutto sesto, che tra il 1570 e il 1590 vennero decorate da 15 diversi pittori dell’Accademia Fiorentina con Storie della Vita di Cristo, San Domenico e altri Santi domenicani e i ritratti di eminenti personalità della comunità di Santa Maria Novella. Si tratta di uno dei cicli più importanti della Controriforma a Firenze, a cui parteciparono tra gli altri, Alessandro Allori e Santi di Tito.
Il Chiostro Grande Foto Patrizia MesseriAffreschi del Chiostro Grande Foto Patrizia Messeri
Sul lato d’ingresso al chiostro vi erano la Cappella degli Ubriachi, di proprietà di un’antica famiglia ghibellina di Firenze e il Refettorio, in cui sono attualmente esposti gli affreschi staccati di Paolo Uccello dal Chiostro Verde e una collezione di arte sacra con arredi e reliquiari.
Sul lato attiguo vi era uno degli ingressi alla Farmacia di Santa Maria Novella, ritenuta la più antica d’Europa e che conserva le proprie sale monumentali con decorazioni, arredi e una interessante collezione di strumenti scientifici tra cui termometri, bilance, misurini e vasi. Oggi la farmacia vende prodotti di profumeria ed erboristeria ed è accessibile da Via della Scala n.16
Antico ingresso della Farmacia Foto Patrizia Messeri
Sul lato opposto si trovava invece il Dormitorio, un grande locale a 3 navate sorrette da sottili pilastri e al primo piano gli appartamenti usati dai pontefici in visita a Firenze: l’unico ambiente superstite è la Cappella dei Papi, affrescata nel 1515 in occasione della visita di Leone X da Ridolfo del Ghirlandaio e il giovane Pontormo che dipinse una lunetta con la Veronica. Fino al 2016 questi spazi facevano parte della Scuola Marescialli e Brigadieri dei Carabinieri, inaugurata nel 1920 e che occupava anche il fabbricato del monastero della SS. Concezione (in cui si trovano ancora degli uffici dell’Arma). Con il trasferimento della caserma a Castello questi luoghi sono finalmente tornati accessibili al pubblico nella primavera del 2017, ad eccezione della Cappella dei Papi, visitabile su prenotazione.
L’antico Dormitorio Foto di Patrizia Messeri
Per visitare il complesso di Santa Maria Novella:
Il biglietto integrato permette di visitare l’intero complesso monumentale (basilica e convento) Per la visita della Cappella dei Papi occorre rivolgersi all’associazione MUS.E dei Musei Civici Fiorentini telefonando al numero 055 2768224. Ingresso libero alla Farmacia di Santa Maria Novella.
Orari di apertura: da lunedì a giovedì ore 9-17.30 – venerdì ore 11-17.30 – sabato ore 9-17.30 – domenica ore 13-17.30
Il biglietto d’ingresso costa euro 7,50 (intero)
Riferimenti bibliografici:
Stefano Borsi, Paolo Uccello, Art e Dossier, Firenze, Giunti ed. 1992
Ecco il museo che piace a grandi e piccini: è il Museo della Casa Fiorentina Antica che si trova a Palazzo Davanzati, costruito per la famiglia Davizzi, poi passato ai Davanzati e dagli inizi del secolo scorso all’antiquario Elia Volpi. Restaurato e arredato più volte è un luogo ricco di ambienti suggestivi in cui è stata ricreata la tipica abitazione di un ricco mercante fiorentino del Tre-Quattrocento.
Palazzo Davanzati Foto Sailko
Il palazzo ha una lunga storia, iniziata molto prima di diventare un museo e che vi posso brevemente riassumere così.
Verso la metà del Trecento i Davizzi, una ricca famiglia di mercanti iscritti all‘Arte di Calimala, si fece costruire una nuova abitazione nei pressi di Porta Rossa, incorporando due case-torri preesistenti. Nel 1578 l’edificio venne acquistato dal noto mercante e celebre studioso Bernardo Davanzati, che fece demolire la merlatura originale per costruire l’altana – cioè la terrazza con la loggia all’ultimo piano – e apporre il suo stemma sulla facciata del palazzo che da allora venne chiamato Palazzo Davanzati. L’ultimo discendente di questa famiglia fu Carlo, che si suicidò nel 1838 gettandosi da uno dei ballatoi del cortile. Alcuni anni dopo la proprietà fu ceduta ad Antonio Orfei e il palazzo venne suddiviso in diverse unità immobiliari: vi abitavano diverse famiglie e alcuni locali erano stati dati in affitto a circoli e associazioni, tra cui la rivista letteraria Leonardo, fondata da Giovanni Papini, che qui ebbe sede fino al 1907, anno della sua chiusura. L’edificio, sfuggito alle demolizioni di Firenze Capitale, era comunque in condizioni precarie e fatiscenti: il cortile veniva usato come magazzino dai commercianti e molte strutture erano pericolanti, tanto da far scrivere all’allora giovanissimo giornalista Orazio Pedrazzi “...tutto era ridotto che non suscitava più nessun ricordo.“
Nel 1904 il palazzo fu venduto all’antiquario Elia Volpi che si dedicò con passione al suo restauro e seppur con tecniche ritenute discutibili fece risistemare la facciata ed eliminare i rimaneggiamenti interni, riscoprendo gli affreschi sulle pareti. Il 24 aprile 1910, dopo essere stato completamente ristrutturato e arredato, esso venne aperto al pubblico come museo privato “della Casa Fiorentina Antica“, con particolare apprezzamento dei viaggiatori e collezionisti stranieri. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e la conseguente crisi economica costrinsero Elia Volpi a vendere l’intera mobilia del palazzo nel 1916 in un’asta a New York, dalla quale fu ricavata l’incredibile cifra di un milione di dollari! Dal 1920 risulta che il museo fosse stato riaperto con nuovi arredi, ma nel 1924 Volpi era talmente pieno di debiti da dover vendere tutte le sue collezioni a due mercanti provenienti da Alessandria D’Egitto, Vitale e Leopoldo Bengujat, che presero in affitto anche il palazzo, poi definitivamente acquistato da Leopoldo nel 1926. Purtroppo nel 1937 l’immobile fu nuovamente messo in vendita per le gravi difficoltà economiche di Bengujat e dopo vari passaggi di proprietà, nel 1951 il palazzo venne finalmente acquistato dallo stato italiano. Il museo fu allestito con mobili intarsiati, casse-panche, cassoni, sedie, dipinti, sculture, ceramiche e altri pezzi donati da musei e raccolte private (di quelli raccolti da Elia Volpi ne restano pochissimi) e inaugurato nel 1956.
Non avevo mai visitato interamente il museo prima del 2009, quando furono riaperte al pubblico anche le stanze del secondo e terzo piano dopo un lunghissimo restauro (iniziato nel 1996) che ha permesso di consolidarne la struttura e recuperare le decorazioni interne.
Una delle sale del secondo piano
Dal punto di vista strettamente architettonico, Palazzo Davanzati è uno di quelli che devi sapere per forza se fai la guida a Firenze, perché la sua particolare struttura lo rende un modello di fondamentale importanza nello studio dell’evoluzione degli edifici civili e di fatto questa è l’unicacasa borghese del Trecento rimasta visitabile.
La prima tipologia di abitazione della Firenze medievale era stata la casa-torre, che potremmo definire come la “versione urbana” delle rocche e dei castelli di epoca feudale nel contado. Ma dopo l’anno Mille molte famiglie erano tornate ad abitare in città e siccome non esisteva ancora una forma di governo ben stabilita, queste alte e massicce costruzioni svolgevano anche una funzione difensiva. Si erano infatti formate fazioni rivali in continua lotta tra loro – le cosiddette consorterie – e le torri venivano costruite molto vicine l’una all’altra, raggruppate intorno a un cortile. Verso la metà del Duecento, nonostante le lotte tra Guelfi e Ghibellini (che avevano reso alquanto incerta la gestione del Comune ma favorito l’ascesa politica della borghesia) ebbe inizio la progressiva trasformazione della casa-torre in palazzo: un processo iniziato con la creazione di strutture adiacenti alla torre con locali sempre più grandi fino a formare un edificio, che pur sviluppandosi ancora in verticale, non era più costituito da un’unico blocco. In effetti questo passaggio si può notare anche nella costruzione dei palazzi pubblici (come il Bargello e Palazzo Vecchio) sorti proprio in quel periodo, che pur mantenendo l’aspetto di fortezza presentano un corpo che si estende per orizzontale. Per le abitazioni private, invece, palazzo Davanzati costituisce un modello di riferimento perché rispetto ai palazzi pubblici venne costruito secondo uno schema più semplice e aperto: un impianto sviluppato su tre piani, con la facciata in pietra arenaria divisa in 5 parti da cornici marcapiano con 3 file di 5 finestre (corrispondenti ai saloni interni) e un grande androne al piano terra in cui fino all’Ottocento si trovavano le botteghe.
Il cortile
Come tutti gli antichi palazzi di Firenze anche Palazzo Davanzati ha i suoi anelli per legare i cavalli e i ferri da torce ai lati delle finestre, mentre solo in pochi hanno mantenuto gli arpioni da stanghe, ossia le staffe in ferro che sostenevano le sbarre di legno che servivano per stendere la biancheria o le tende e nei giorni di festa dei drappi decorativi.
Gli arpioni da stanghe
Tutto il museo è stato concepito per ricreare l’atmosfera di un’abitazione privata.
In passato l’atrio d’ingresso era una loggia aperta sulla strada da cui si accedeva al cortile, su cui si affacciavano le varie stanze ai piani, comprese le camere da letto. Due lati del cortile sono coperti da un portico con capitelli in stile classicheggiante, tranne uno con figure che forse rappresentano i ritratti della famiglia Davizzi. Si vede anche un grande albero genealogico dei Davanzati insieme ad altri oggetti di arredo, mentre al centro si trova la cisterna in cui veniva convogliata l’acqua piovana dai gocciolatoi e che alimentava il pozzo che portava l’acqua ai piani.
Capitello con figure nel cortile di Palazzo Davanzati Ph. credits WikipediaIl pozzo
Tutti i piani hanno il medesimo schema di distribuzione degli ambienti, con un grande salone che si affaccia sulla strada, detto salone madornale e collegato ad ambienti di servizio, una grande stanza dotata di agiamento (cioè il gabinetto), uno studio e una camera da letto con ingresso indipendente dal ballatoio lungo il cortile.
Uno degli agiamenti di Palazzo Davanzati Video coupleinflorence
Il salone madornale del primo piano si trova proprio sopra la loggia del piano terra: ai lati del pavimento sono ancora presenti le botole (di queste è consentito aprirne solo una) che consentono di guardare nell’atrio d’ingresso sottostante. Alle pareti si vedono i ganci per gli arazzi e una parte della decorazione del soffitto è quella originale del Trecento.
La botola del salone madornale del primo piano Video coupleinflorence
Dal salone madornale si accede alle sale in cui è esposta la ricca collezione di merletti e ricami databili dal XVI al XX secolo, con una interessante raccolta di imparaticci, pezzi usati come esercizio per chi doveva imparare l’arte del ricamo.
Strumenti per ricamo e merletto
Uno degli ambienti più celebri del palazzo è la cosiddetta Sala dei Pappagalli, che forse anticamente era una sala da pranzo, coperta da affreschi della fine del Trecento con il motivo ornamentale dei pappagalli e che imita drappi e arazzi, mentre nel registro superiore sono dipinti alberi e colonnine.
Sala dei Pappagalli Ph. credits Wikipedia
Nello studiolo del secondo piano si trovano alcuni dipinti eseguiti da Giovanni da San Giovanni detto lo Scheggia, fratello di Masaccio, artista specializzato nella decorazione di cassoni e altri oggetti di arredo: il museo conserva quattro tavole semicircolari raffiguranti i Trionfi del Petrarca e un desco da parto con il Gioco del Civettino.
Il gioco del civettino nel desco da parto dello Scheggia
Per quanto riguarda le camere da letto, Palazzo Davanzati ne ha ben tre, tutte dotate di bagno personale, ossia la stanza in cui ci si dedicava alla cura dell’igiene personale (mentre l’agiamento come si vede dal video aveva un’altra funzione..)
Sala dei Pavoni, camera nuziale del primo piano con stemmi delle famiglie alleate dei Davizzi e pavoni Ph. credits WikipediaCamera da letto del secondo piano con le Storie della Castellana di Viergy (è l’unica stanza con affreschi, le altre decorazioni sono pitture murali)La Camera delle Impannate al terzo piano
Al terzo piano si trova anche la cucina, ricca di utensili antichi e strumenti da lavoro femminili tra cui un impastatoio, un girarrosto, un telaio, ferri da stiro e l’occorrente per il cucito. Sulla parete d’ingresso uno dei tanti graffiti probabilmente lasciati dalla servitù riporta la data di un evento importante, l’uccisione di Giuliano de’Medici, fratello di Lorenzo il Magnifico, durante la Congiura dei Pazzi avvenuta il 26 aprile 1478. E’ inoltre possibile consultare una copia a stampa del Tacuinum Sanitatis, un trattato medico di origine araba contenente consigli sulla salute, il nutrimento e l’umore in corrispondenza delle varie stagioni dell’anno.
La cucinaIl graffito che riporta la data della Congiura dei PazziAlcuni piatti in ceramica delle collezioni esposte nelle varie sale
Il Museo di Palazzo Davanzati fa parte del gruppo dei Musei del Bargello.
Per gli orari di apertura e le modalità di accesso in base alle normative Covid consultate il sito dei Musei del Bargello
Bibliografia di riferimento
Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Museo di Palazzo Davanzati, Firenze, Polistampa, 1996
E’ il primo monumento che vedi quando arrivi a Firenze in treno: esci dalla stazione, giri l’angolo ed ecco la prima chiesa (gli stranieri lo pensano di sicuro!) con la sua massiccia abside in pietra. E’ la basilica domenicana di Santa Maria Novella, costruita dai frati architetti dell’ordine e che fa parte di uno dei più grandi complessi religiosi della città, ricco di storia e opere d’arte.
I domenicani giunsero a Firenze nel 1219 al seguito di Fra Giovanni da Salerno e si insediarono in Santa Maria delle Vigne, una piccola chiesa fuori dalle mura risalente al XI secolo. L’edificio apparteneva ai canonici del Duomo e si trovava in una zona poco abitata, circondato da orti e giardini.
Tomba di Giovanni da Salerno
La forte influenza esercitata sui fedeli fece crescere rapidamente la nuova comunità e nel 1242 si rese necessaria la costruzione di una chiesa più grande: la cerimonia per la posa della prima pietra si svolse solennemente il 18 ottobre 1279, ma i lavori era già stati avviati da tempo, pare sotto la direzione di Fra Sisto e Fra Ristoro, a cui si aggiunse Fra Jacopo Passavanti, celebre teologo e predicatore dell’ordine. Buona parte del convento venne edificata nel Trecento da Fra Jacopo Talenti e Benci di Cione, ma la consacrazione avvenne solo nel 1420 alla presenza di papa Martino V. I lavori peraltro non si erano ancora conclusi perché la decorazione della facciata (iniziata intorno al 1350 con la creazione dei 3 portali e dei 6 avelli rivestiti di marmo bianco e verde) si interruppe durante il Concilio di Firenze del 1439 e venne ripresa solo una ventina di anni dopo su commissione di Giovanni Rucellai, che affidò l’incarico a Leon Battista Alberti. Il grande teorico e umanista del Primo Rinascimento progettò il completamento superiore della facciata, integrando le preesistenze gotiche con elementi tipici dell’architettura classica, in una composizione diventata un modello di armonia ed equilibrio. L’opera venne completata nel 1470, come riporta l’iscrizione in latino scolpita sulla trabeazione.
Facciata di Santa Maria NovellaInterno della basilica
L’interno a tre navate venne modificato a seguito delle disposizioni del Concilio di Trento nel 1565 da Giorgio Vasari che demolì il tramezzo e ricostruì gli alterali laterali secondo il gusto manierista dell’epoca.
La presenza di due gradini segnala il punto in cui si trovava la parete divisoria, dove nel 2001 è stato ricollocato, dopo un intervento di restauro, il bellissimo Crocifisso di Giotto, una delle opere più antiche ancora presenti in chiesa. La grande tavola, posta proprio al centro della navata maggiore in posizione rialzata, raffigura il Christus Patiens, una particolare iconografia del Cristo comparsa nella prima metà del Duecento e profondamente rinnovata dal pittore. Egli conferì una posa molto più naturale alla figura, che non si mostra più inarcata verso sinistra, ma grava su stessa per il peso del corpo, con la testa piegata in avanti.
Il Crocifisso di Giotto, 1289 ca.
Ulteriori lavori di ristrutturazione vennero eseguiti tra il 1858 e il 1860, durante i quali venne ritrovata la Trinità di Masaccio, ultima opera del giovane pittore a Firenze prima della sua partenza per Roma, dove morì in circostanze misteriose nel 1428. L’affresco realizzato lungo la parete della navata sinistra raffigura il Dio Padre che sorregge la croce, con la Madonna e San Giovanni affiancati dai committenti. La scena è incorniciata in un magnifico impianto architettonico che per la sua complessità ha fatto presupporre l’intervento dell’amico Filippo Brunelleschi, al tempo l’unico artista in grado di realizzare una simile visione prospettica. Alla base dell’affresco si vede uno scheletro con la scritta “io fu già quel che voi sete e quel chi son voi ancor sarete” sul cui significato si è dibattuto a lungo: molto probabilmente, più che essere un mero riferimento alla morte, andrebbe ricondotto alle stesse parole pronunciate dal Cristo, in atto di totale sottomissione alla volontà del Padre (Giovanni, 17,10-11)
La Trinità di Masaccio, 1428Il pulpito è un’opera di Andrea Cavalcanti, figlio adottivo di Brunelleschi che ci lavorò verso la metà del ‘400
Tra le cappelle del transetto sono assolutamente degne di nota la Cappella Gondi, con il cosiddetto crocifisso delle uova di Brunelleschi, la Cappella Strozzi di Mantova affrescata da Nardo di Cione alla metà del Trecento con il Giudizio Universale, la Cappella di Filippo Strozzi, decorata da Filippino Lippi tra il 1487 e il 1502 con le Storie della vita dei Santi Filippo e Giovanni Evangelista e la Cappella Bardi, dedicata a San Gregorio Magno in cui si trova una finestra bifora ritenuta parte dell’antica chiesa di Santa Maria delle Vigne.
La Cappella Gondi con il Crocifisso delle uova La Cappella di Filippo Strozzi con gli affreschi di Filippino LippiLa Cappella di San Gregorio
Gli affreschi della Cappella Maggiore sono il capolavoro di Domenico Ghirlandaio che lavorò tra il 1485 e il 1490 alle Storie della Vita della Vergine (a sinistra) e di San Giovanni Battista (a destra).
Per ammirare gli affreschi da vicino occorre andare dietro l’altare maggiore: le scene sono incorniciate da finte architetture e si leggono dal basso verso l’alto da sinistra a destra nella parete sinistra e da destra verso sinistra nella parete destra. Oltre che per la sua bellezza, il ciclo pittorico della cappella è molto importante per i ritratti di numerosi personaggi illustri, che rendono questa decorazione un autentico spaccato della società fiorentina dell’epoca.
Le Storie di San Giovanni Battista (parete destra)Le Storie della Vergine (parete sinistra)
Nella Cacciata di Gioacchino dal Tempio, ad esempio, due gruppi di personaggi fanno da spettatori alla scena biblica: a sinistra è raffigurato Lorenzo Tornabuoni (figlio del committente) insieme ad altri giovani, mentre a destra si riconoscono Sebastiano Mainardi, Domenico Ghirlandaio (vestito di blu e rosso con lo sguardo rivolto verso lo spettatore), il fratello Davide (girato di spalle) e forse il padre, l’orafo Tommaso Bigordi.
La Cacciata di Gioacchino dal Tempio dettaglio con l’autoritratto di Domenico Ghirlandaio
Una delle storie più belle è sicuramente la Natività di Maria, ambientata in una casa del tempo, dove in alto a sinistra, in cima a una scalinata, si vede l’abbraccio tra Anna e Gioacchino, mentre a destra, distesa sul letto, compare nuovamente Anna affiancata dalle nutrici. Tutta la scena è caratterizzata da uno straordinario realismo, come nel gesto della giovane che versa l’acqua e nella decorazione della stanza con pannelli in legno alle pareti e il rilievo con i putti. Al centro si trova un gruppo di donne riccamente vestite: la prima è stata identificata come Ludovica Tornabuoni, figlia del committente, in un elegantissimo abito di broccato dorato, accompagnata da una domestica e altre figure femminili tra cui vi potrebbe essere la zia Lucrezia, sorella del padre Giovanni e madre di Lorenzo il Magnifico.
Natività di Maria Ritratto di Ludovica Tornabuoni
La stessa figura compare anche nella parete opposta nella scena della Visitazione, che si svolge all’aperto vicino alle mura, con al centro Elisabetta e Maria che si salutano e due gruppi di donne in cui sono presenti Giovanna degli Albizi (moglie di Lorenzo raffigurato nella Cacciata dal Tempio con lo stesso abito della cognata Ludovica, ma con le maniche più corte), Dianora Tornabuoni (moglie di Pier Soderini) e una giovane di cui non si conosce l’identità.
La VisitazioneRitratto di Giovanna degli Albizi
Un altro ritratto che potrebbe essere quello di Lucrezia Tornabuoni è nella storia che rappresenta la Nascita del Battista (la più anziana nel gruppo di donne a destra) in cui compare un’ancella con un cesto di frutta in testa e l’abito svolazzante.
Molto curata e ricca di ritratti è anche la scena con L’Annuncio dell’angelo a Zaccaria, affollata da sei diversi gruppi di personaggi disposi su vari livelli in cui si compaiono molti notabili fiorentini del tempo e nel gruppo in basso a sinistra gli umanisti dell’accademia neoplatonica: da sinistra Marsilio Ficino, Cristoforo Landino (con il colletto nero) Agnolo Poliziano e Demetrio Greco.
I musei civici fiorentini saranno straordinariamente aperti per 3 giorni consecutivi da venerdì 6 a domenica 8 marzo sia per i cittadini residenti che per i turisti. L’iniziativa è stata promossa per sostenere maggiormente la cultura e l’arte della nostra città e renderla accessibile a tutti in questo momento così difficile a causa dei rovinosi effetti, anche economici, provocati dalla diffusione del virus Covid-19. La decisione è stata ufficialmente condivisa sui social lo scorso venerdì 28 febbraio dal sindaco Dario Nardella che ha dichiarato: “Firenze è aperta, i suoi musei sono aperti”.
Vi ricordo che i musei appartenenti a questa categoria attualmente visitabili sono:
Il Tesoro dei Granduchi (fino al 2015 chiamato Museo degli Argenti) si trova nelle stanze al piano terra e al mezzanino di Palazzo Pitti in quelli che furono gli appartamenti estivi della famiglia Medici. I bellissimi affreschi delle sale di rappresentanza vennero eseguiti in occasione delle nozze tra Ferdinando II e Vittoria della Rovere. Il museo conserva numerosi oggetti di oreficeria, vasi in pietre dure, avori, ambre e argenti antichi ma ha anche una importante sezione dedicata ai gioielli contemporanei.
La sala di Giovanni da San Giovanni
Il Museo degli Argenti venne allestito alla metà dell’Ottocento riunendo il cosiddetto “Tesoro di Salisburgo“, appartenuto a Ferdinando III di Lorena, con ciò che restava del “Tesoro Mediceo“, a cui si aggiunsero vari oggetti provenienti dalla Tribuna degli Uffizi, gli avori e le ambre del Bargello e i gioielli di Anna Maria Luisa de’ Medici, ultima discendente del ramo granducale.
Il percorso di visita inizia dalle due sale che appartenevano al nucleo originario del palazzo, costruito nel Quattrocento per il banchiere Luca Pitti.
La prima stanza è dedicata a Lorenzo il Magnifico (di cui si può vedere un ritratto e la maschera funebre) e contiene 16 vasi della sua collezione di pezzi antichi su cui vennero incise le sue iniziali in onice, diaspro e ametista. Con la cacciata dei Medici, il figlio Giovanni, diventato papa con il nome di Leone X, portò la raccolta a Roma dove suo cugino Giulio (anche lui diventato papa con il nome di Clemente VII) li fece trasformare in reliquiari. Nel 1532 i vasi tornarono a Firenze e vennero collocati nella tribuna appositamente realizzata da Michelangelo nella contro-facciata di San Lorenzo ed esposti al pubblico una volta l’anno. Svuotati del loro contenuto alla fine del Settecento, vennero trasferiti agli Uffizi e negli anni Venti arrivarono al Museo degli Argenti.
I vasi di Lorenzo
La piccola sala attigua viene chiamata Grotticina, che nel Seicento venne decorata con un motivo a grottesche. Guardando a destra sotto la finestra ci si accorge che c’è una fontana, perché questa era la stanza in cui la Granduchessa Vittoria della Rovere veniva a lavarsi i capelli.
La Grotticina di Vittoria della Rovere
Tornando indietro verso l’atrio d’ingresso entriamo nelle sale di rappresentanza che si affacciano su Piazza Pitti e fanno parte del primo ampliamento del palazzo voluto da Cosimo II de’ Medici eseguito tra il 1618 e il 1624.
Sala di Giovanni da San Giovanni (parete d’ingresso)
Il primo ambiente è chiamato Sala di Giovanni da San Giovanni e in passato aveva la funzione di anticamera della sala d’udienza, ma serviva anche a collegare gli appartamenti del Granduca con quelli della Granduchessa e nelle occasioni importanti, per allestire banchetti e ricevimenti. Vista la sua funzione pubblica, la sala venne decorata con affreschi di contenuto storico e dinastico, in occasione delle nozze tra Ferdinando II e Vittoria della Rovere, celebrate in forma privata il 1° agosto 1634 e poi con cerimonia pubblica nel 1637. Il matrimonio è raffigurato nel grande affresco del soffitto dipinto da Giovanni da San Giovanni, in cui si vedono le Parche che tagliano i rami secchi di una quercia (simbolo araldico dei Della Rovere di cui Vittoria era l’ultima discendente) mentre un putto innesta l’ultimo ramoscello verde nello scudo mediceo. Tra il soffitto e le pareti si trovano le allegorie del Giorno e della Notte, delle Stagioni e dei Mesi con i reIativi segni zodiacali, in cui appare anche l’artista ritratto con un granchio in mano (il segno del cancro, nel mese di giugno).
Sala di Giovanni da San Giovanni (soffitto)
Per le pareti il tema prescelto fu la Firenze di Lorenzo il Magnifico come nuova Atene delle Arti e delle Lettere. Giovanni da San Giovanni affrescò solo la parete di d’ingresso, suddivisa in tre scene: Il Tempo che tutto rovina e I Satiri che cacciano la cultura dal monte Parnaso in cui si vedono gli artisti, i letterati e le nove Muse che fuggono (l’ultima figura a destra è il cieco Omero), trovando rifugio in Toscana. Nel 1636 il pittore morì e la decorazione venne terminata dai suoi allievi: Cecco Bravo rappresentò Lorenzo Il Magnifico riceve il Corteo delle Muse e Lorenzo parla con la Prudenza per ricordare che la sua epoca fu contraddistinta dalla pace e dalla fioritura di tutte le arti. Nella parte di fronte all’entrata Ottavio Vannini dipinse Lorenzo siede in mezzo agli artisti, con la scena che si svolge nel Casino di San Marco, dove il giovane Michelangelo mostra al Magnifico una sua scultura. Ai lati si vedono Flora e Prudenza e Lorenzo e la Fede. Il ciclo pittorico si chiude con le storie eseguite da Francesco Furini, che mostrano Lorenzo alla villa di Careggi, circondato dai membri dell’Accademia Neoplatonica e la Morte di Lorenzo, con la guerra che minacciosa compare nel cielo.
I Satiri che cacciano la cultura dal monte ParnasoOttavio Vannini, Lorenzo siede in mezzo agli artisti Ph. credits Wikipedia
Per la decorazione delle successive sale vennero chiamati due pittori bolognesi esperti in quadrature, cioè di finte architetture dipinte, Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli. La prima sala era quella destinata all’udienza pubblica, dove il Granduca riceveva i sudditi seduto sul trono, circondato dai suoi ministri e cortigiani. E siccome il tempo del sovrano era prezioso, sulla parete a destra dell’entrata era scritta la frase: “Rado tu parla e sii breve e arguto“. Sulle pareti furono dipinti diversi personaggi che alludevano alla vita di corte, come il servitore nero, il bambino che gioca con la scimmia o i musicisti che suonano dal balcone, mentre al soffitto venne raffigurata l’Allegoria del Tempo.
Accanto alla sala dell’audienza pubblica vi era quella dell’udienza privata, destinata ai personaggi di alto rango che venivano ricevuti a colloquio con il Granduca senza la presenza della corte. La decorazione venne ultimata nel 1640 e aveva per tema la celebrazione di Ferdinando II, identificato nel grande condottiero Alessandro Magno raffigurato sul soffitto seduto su un carro tirato da cavalli bianchi. Alle pareti, le quadrature sono animate da altri personaggi di corte tra cui un ragazzo con un cannocchiale, evidente omaggio a Galileo Galilei.